Little wing

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Il mio racconto  per il magazine di Natale 2016 sul blog di Morena Fanti

Lo spartito è aperto sul leggio, nessun suono nella stanza.
Nel vano adiacente l’insegnante di pianoforte si riveste indossando uno dopo l’altro gli indumenti appoggiati con cura sulla sedia accanto al letto.
L’allievo dorme con un respiro regolare dopo la corsa d’amore; i suoi panni sono
sparsi in terra disordinatamente, se li era strappati di dosso con l’irruenza del bambino che scarta i regali sotto l’albero il mattino di Natale e nella sua bellezza nuda l’aveva spogliata con la delicatezza di chi sfoglia una rosa per scoprire all’interno lo scarabeo dorato.
Non è ancora maggiorenne, potrebbe essere suo figlio. Non ha saputo resistergli. Lui ha preso una cotta, lei ha perso la testa.
È felice, ma scavando nel cuore della sua intimità trova un fondo di inquietitudine e di amarezza perché sente che la sua gioia non è definitiva, può essere spezzata facilmente, essa è fragile come la stella di vetro trasparente che brilla sul ramo dell’abete vestito a festa, bisogna custodirla con cautela e premura perché gioia, piacere, soddisfazione e godimento hanno sempre in agguato il loro contrario: infelicità, amarezza, tristezza, dolore, afflizione, basta una disattenzione, un piccolo urto, per ridurla in schegge.

Si affaccia alla finestra, sente il respiro pesante della città striato da suoni di sirene lontane, un senso di vertigine, la invade la sensazione di avere varcato un piccolo mondo di drammi, di segreti, di sofferenze nascoste eppure reali.
«I miei desideri sono pochi» pensa con dispiacere, perché sa che la mancanza dei desideri è il primo avvertimento della fine della vita.
Con malincuore interrompe il sonno del ragazzo:
«Sono le cinque, si è fatto tardi, il mio treno parte alle diciotto, devo sbrigarmi.
Beviamo un tè e poi ti accompagno alla fermata del pullman, percorriamo un po’ di strada assieme, ci salutiamo e proseguo fino alla stazione.
Ascoltando il gorgoglio del thé versato nella tazzina e il tintinnio del cucchiaino si guardano negli occhi in silenzio per intuirne il linguaggio segreto; uno sguardo autentico che li guida verso la profondità nascosta al di là di ciò che è visibile.

«Andiamo. Prendo il borsone che ho lasciato accanto alla porta».
«Lo porto io».

Le luminarie del Natale colorano le vie della città, i due camminano fianco a fianco, lei gli tiene un braccio appoggiato sulla spalla e ogni tanto lo tira verso di sé; uno spiraglio di luce si è aperto nella sua vita, non si aspetta niente di più.
Dietro le loro spalle il vento sferza ondate fredde sui gusci dei loro cappotti, una frustata gelida colpisce la folta capigliatura ricciuta mettendo in risalto la perla sull’orecchio perfetto della quarantenne.
Dall’altoparlante del negozio di dischi la musica trasmette sensazioni di incanto: un prolungato riff introduce la canzone Little wing. La chitarra di Jimi Hendrix fraseggia con la voce ricamando le tracce malinconiche delle liriche magiche:
“Cammina tra le nuvole non pensare ad altro.
Cavalca il vento.
Quando sono triste vieni da me con mille sorrisi e raggi di luna e mi regali fiabe.
Prendi ciò che vuoi da me.
Qualunque cosa.
Vola piccola ala”.
L’eco finale sfocia in un assolo che sfuma nell’infinito.
La testa dello studente è persa in mille pensieri, sa di aver aperto una porta, ma non sa cosa aspettarsi al di là della soglia. Una cosa è certa, il suo cuore batteva come un tamburo mentre stava tra le braccia di lei; sente ancora la morbidezza e il profumo di sapone alla magnolia del suo corpo.

La notte senza stelle ruba gli occhi ai due viandanti, una pallida luna si affaccia tra le nuvole con una manciata di luce sulle strade della città. La morsa invernale attanaglia il cuore; il silenzio cala come una lama gelata.
Si devono dividere per un po’ di tempo, non sanno come rompere il ghiaccio, cosa dire dopo tutto ciò che si sono rivelati in questi giorni. Due parole intrappolate nelle bocche mute:
“Mi mancherà”.
“Mi mancherà”.
Arrivati alla fermata il ragazzo scongela il silenzio:
«Prendo il pullman delle sette e ti accompagno fino alla stazione, ti porto la borsa fino là». È una scusa per stare ancora un poco con lei.
Lungo il tragitto alcuni pensieri martellano la sua mente:
Cosa farà senza lei tutto questo tempo. Cambierà qualcosa al suo ritorno. Si rivedranno ancora?. Se succedesse qualcosa, qualsiasi cosa che gli impedisse di vederla…
La commozione fa capolino, gli occhi si fanno lucidi.
Davanti ad un locale chiuso un filo leggero di lucine bianche illumina un ramo di vischio, il diciassettenne si ferma, lascia cadere la borsa, prende tra le mani il viso di lei e spingendola dolcemente sotto il rametto sussurra:
«Un bacio sotto il vischio è di buon auspicio per l’anno a venire».
Appoggia le labbra socchiuse su quelle profumate di mandarino; un bacio puro, come quello dei film che piacciono tanto a lui. Un bacio semplice e fragile che crea ed esprime una storia delicata e ricca di emozioni, una piccola realtà che contiene una costellazione immensa di valori.
Piace anche a lei il bacio rubato.
Il treno è già sui binari, il biglietto è nella borsa.
La voce flautata della donna cerca invano di rendere dolce il distacco:
«Ti porterò un regalo da Bologna, ci vediamo al mio ritorno il primo martedì dell’inizio della scuola, Buon Natale e Buon Anno».
Il distacco strappa il cuore, hanno bisogno di stare soli per pensare l’una all’altro, per fissare gli ultimi attimi del giorno che sta passando.
Il fischio del treno è una fucilata che corre sui binari annunciando la partenza.
La notte è lo sfondo di un quadretto romantico di forte intensità: lei è al finestrino, il palmo della mano appoggiata al vetro, un sorriso sulla bocca, la sciarpa sui capelli.
Lui sulla banchina non sa come trattenere l’emozione, le lacrime sciolte sul bordo degli occhi cadono in terra diventando cristalli di brina. Strappa di tasca un fazzoletto bianco e comincia a sventolarlo oscillando il braccio in alto perchè lei lo veda da lontano finchè diventerà un puntino prima di essere ingoiato dalla notte.
La malinconia batte nel petto come un martello sul ferro incandescente per forgiarlo in un raggio di sole, un filo forte per attraversare la vita.

Moby Dick

Qualche volta di notte,
quando la luna è alta nel cielo
un potente tuono viene udito tra le colline ma non spaventatevi,
è solo Bonzo,
che fa un soundcheck in paradiso.                                                                                                  (John Paul Jones)

«I bambini nascono sotto i cavoli?».
«Perchè me lo chiedi?».
«I miei amici dicono che non è vero. Che i bambini li fanno gli uomini e le donne nel letto. Io non ho capito, mi vuoi spiegare?».
Il dodicenne Paolo da poco aveva visto la comparsa dei peli sul proprio pube ed aveva capito come funzionava il gioco per mettere al mondo i bambini. Come spiegare al fratellino ciò che per lui era stato un mistero fino allora. Cosa avrebbe capito Ismaele?. La curiosità del piccolo non l’avrebbe lasciato in pace, inventò una risposta al volo per poter soddisfare la sua domanda.
«Sì, li fanno gli uomini e le donne ma non necessariamente nel letto».
Risposta sventata. Si era cacciato in un bel pasticcio sparando quella frase. Non doveva lasciargli il tempo di replicare altrimenti lo avrebbe tormentato di domande fino a fargli rivelare tutto il mistero, ed era troppo presto per un bambino di sei anni.
«I bambini nascono nei luoghi dove vivono e lavorano i genitori: quelli degli spaccapietre, nelle cave, quelli dei contadini sotto i cavoli. Tu sei figlio di un fabbro e sei stato trovato sull’incudine e se vuoi proprio saperlo, la mattina del tuo arrivo sono stato io a sentire per primo i tuoi vagiti. Urlavi come un ossesso. Sono corso giù in fucina e non sapendo come farti smettere ti ho messo un dito in bocca e subito hai cominicato a succhiarlo. Sei nato con la fame e allora ti ho portato dalla mamma e dal papà e sei diventato uno di noi. Capito?. Ora dormi. Sono già le undici e domattina mentre tu ancora starai qui al calduccio sotto le coperte, io sarò giù a battere il ferro rovente col papà e se sull’incudine ci fosse un altro bambino potrei dargli una martellata in testa per farlo stare zitto».
Il piccolo rise, la rivelazione lo aveva appagato, allungò la mano per prendere quella del fratello, la accarezzò pensando al dito succhiato sei anni prima, la baciò, intrecciò le proprie dita con le sue, appoggiò sul fianco del fratello la stretta intesa e si addormentò in pochi istanti, allacciato come ogni notte alla sua schiena .
Anche Paolo era soddisfatto, l’aveva spuntata abbastanza bene senza svelare il segreto con verità troppo crude o bugie troppo grosse. Sì, non era vero che i bambini nascono come aveva raccontato al fratellino, ma una mezza verità l’aveva detta: Ismaele lo aveva trovato proprio lui, sei anni prima, giù in fucina. Il piccolo era avvolto in una coperta, dentro un canestro di vimini, con la sola eredità di un libro dal titolo Moby Dick.
Su una delle prime pagine bianche c’era una scritta in matita: “Chiamatemi Ismaele”.
E Ismaele non avrebbe fatto la fine del vagabondo figlio del biblico Abramo e della schiava Agar, non lo avrebbero lasciato vagare nel deserto come un bastardo, fra altri reietti. Fu da subito considerato un dono per la famiglia e avrebbe trovato un posto e l’opportunità di trovare l’amore che non gli aveva dato chi lo aveva portato lì.
Fu adottato, esaudendo il desiderio richiesto con insistenza da Paolo alla mamma che oramai non vedeva il sangue da qualche anno.

Ismaele crebbe sereno e felice. Meno dotato fisicamente del fratello maggiore ma più intelligente e perspicace, era il beniamino non solo della famiglia ma di tutte le persone che frequentavano la mascalcia, soprattutto dei contadini che portavano i cavalli per la ferratura degli zoccoli. Il ragazzino dimostrò dai primi anni di scuola le sue capacità intellettive e i genitori su consiglio del maestro dopo la quinta elementare decisero di fargli proseguire gli studi nonostante il piccolo volesse a tutti i costi fermarsi a lavorare nell’attività di famiglia. Ogni pomeriggio appena terminati i compiti scendeva nella piccola officina e si dava da fare con impegno, imparando così a poco a poco tutte le operazioni del fabroferraio. All’età di quindici anni aveva imparato a perfezione la “tripletta”: una ritmica percussione con mazze e martelli sulla barra di ferro incandescente appoggiata sull’incudine. Tam, tam, tam, un colpo dopo l’altro fino a che il ferro ridiventato scuro per la perdita di calore veniva gettato in terra o nel secchio a raffreddare, oppure rimesso nel fuoco per ulteriori passaggi di lavorazione. Quell’andatura precisa, rapida, incalzante, era l’operazione preferita di Ismaele; in quei momenti si sentiva una cosa sola col fratello e il padre Santo.

La passione per il ritmo lo condusse per mano ad un’altra passione: quella per la musica. Erano gli anni sessanta; le sere d’estate il Juke box del bar nella piazzetta adiacente diffondeva i nuovi suoni del rock; per Ismaele fu subito amore. Un sera, Paolo, mentre si stava infilando sotto le coperte, si rese conto dai singhiozzi, che il fratello non stava dormendo. «Cos’hai, perché piangi? É successo qualcosa?».
La luce fioca dell’abatjour illuminò il volto tumefatto di Ismaele. «Niente niente».
«Come niente. Dimmi subito chi ti ha conciato così e domani gli spacco il muso». «Lascia perdere, sono stato io per primo ad alzare le mani». Il fratello maggiore insisteva; non avrebbe mollato finchè avrebbe ottenuto ciò che voleva sapere. Il fratello minore fu costretto a cedere, chiese di spegnere la luce e cominciò a confidare l’accaduto.
Al bar durante una discussione animata, un coetaneo lo aveva insultato chiamandolo -bastardo, figlio di puttana-. Erano venuti alle mani, se le erano date di santa ragione. Il suo avversario conciato peggio di lui prima di andaresene gli aveva urlato in faccia -Lo sanno tutti in paese che non sei figlio di Santo. Chiedilo a tuo fratello-.

Paolo deglutiva in silenzio; aveva mantenuto il segreto per tutti quegli anni obbedendo alla promessa fatta ai genitori – quando arriverà il momento glielo diremo – sperando sempre che non sarebbe stato necessario, e intanto anno dopo anno, il bambino era cresciuto nella loro famiglia, amato fin dal primo momento.

Chi sono i genitori? Coloro che accoppiandosi danno inizio alla vita? Una madre che ti porta in seno e ti partorisce? O forse i genitori sono coloro che meritano di esserlo?.

Paolo confermò quanto gli aveva raccontato anni prima, e aggiunse:
« Ora sai come nascono i bambini; non ti ho mentito quando ti raccontai dove e come ti ho trovato. Non so niente di più. Domattina ne parliamo con mamma e papà. Dormi adesso. È vero, non sei figlio naturale dei nostri genitori, ma sei stato accolto come il figlio atteso da sempre».
Ismaele si sentì soffocare. I suoi veri genitori non lo avevano voluto. Lo avevano escluso dalla propria vita come un aborto clandestino. Non dormì quella notte, e sotto le stesse coperte un giovane, considerato fratello fino allora, condivise in silenzio la veglia fino all’alba.

All’ora di colazione Santo e la moglie trovarono i due figli in cucina ad attenderli.
Il padre confermò le parole di Paolo e mostrò il libro trovato nel canestro.
La scritta -Chiamatemi Ismaele- era firmata: Mary.
Sulla seconda pagina di copertina, un’altra indicazione: London 1945. With love Peter.
Se quelli erano i nomi dei suoi genitori naturali, Londra sarebbe dovuta essere la loro casa. Per far capire al figlio che non avrebbe dovuto giudicare il comportamento innaturale della madre, gli confidò la verità, avvolta fino a quel giorno in una pellicola di silenzio, rivelandola con parole centellinate, pesate e pensate in tutti quegli anni:
«Lo stesso giorno del tuo arrivo, sulla strada a pochi chilometri dalla fucina, fu ritrovata una sconosciuta in fin di vita, dissanguata da emoraggia da parto. Accanto a lei il cadavere di un uomo trucidato da colpi di arma bianca.
Erano gli ultimi tempi prima della Liberazione del ’45.
Il giorno seguente un gruppo di antifascisti armati prelevò i cadaveri. Si seppe che i due erano informatori inglesi stanziati nella zona per tenere il contatto tra gli alleati e le truppe partigiane. Niente di più. Nessuno chiese notizie del bambino. Per noi eri un dono piovuto dal cielo. In quei tempi fu facile registrarti all’anagrafe come nostro figlio.
Non sei stato abbandonato. I tuoi veri genitori hanno sacrificato le proprie vite per la tua».

Reciso da un albero lacerato dal fulmine della guerra era stato innestato come una gemma nel portainnesto in una famiglia sana che lo aveva fatto germogliare con cura e amore.
La storia lasciava spazi bianchi necessari di approfondimento, un rigo musicale vuoto da riempire con l’eco del cuore.

Quando pensi di aver perso la rotta e non sai cosa decidere o fare, l’amore di una madre emerge dalle profondità del mare e diventa la stella polare che brilla nel buio della non conoscenza.
Due sono le cose durevoli che i genitori sperano di lasciare ai figli: le radici e le ali.

Ismaele si aggrappò al primo e unico gradino del suo mistero: Moby Dick.
Lesse il libro nel giro di pochi giorni e maturò l’idea di andare nella città inglese per respirare la stessa aria di chi l’aveva messo al mondo.
I suoi familiari non fecero obiezioni.

A Londra trovò lavoro come cameriere in un pub, un posto per imparare la lingua guadagnando da vivere, e soprattutto ascoltare la musica delle bands rock che si alternavano sul palco del locale.
Durante una deludente esibizione, un ragazzo di qualche anno più grande di lui, dopo aver bevuto una buona misura di birra e alcool, insoddisfatto e seccato per la qualità delle esecuzioni sonore, scaraventò una sedia contro il palco e dopo una collutazione coi musicisti si sbarazzò di loro e si insediò alla batteria. In quel momento cominciò il vero spettacolo della serata.

Il suono lo dirige chi batte il tempo, era una idea fissa di Ismaele e quell’orso ne stava dando la dimostrazione convincendolo con ogni sorta di pandemonio, senza perdere di vista il vero obiettivo di ogni musicista: suonare con passione.
Le pulsazioni del giovane fabbro aumentarono ad un ritmo frenetico in perfetta sintonia con la musica prodotta. Una carica potente di energia penetrando nel petto lo riempiva al punto che se fosse stato un cannone avrebbe sparato il cuore in cielo.

Alla fine della performance il giovane cameriere entusiasta offrì da bere al batterista coi

baffi.Si fermarono fino a tarda notte a chiacchierare. Condividevano le stesse idee sulla musica e sulla vita.Trovando un’anima simile alla sua, Ismaele gli aprì il proprio cuore raccontandogli la sua storia e il desiderio di scoprire in quella città qualcosa delle proprie origini. Per commentare la sua impressione sull’esibizione del batterista trasse dal bancone il libro di Melville, lo sfogliò e si fermò su una pagina, la rilesse sottovoce e disse:

« Mentre ti guardavo sul palco mi si è presentata davanti agli occhi la scena descritta da queste parole “Sembrava un uomo staccato dal palo del rogo, quando il fuoco ha devastato le membra percorrendole tutte senza consumarle e senza portar via una sola particola della vecchia e compatta robustezza”».

Il batterista sorrise compiaciuto, gli diede una manata sulla spalla dicendo:
«Che libro è questo?»
«Moby Dick».
«Me lo presti?. Non temere, ho compreso cosa vale per te. Lo riporterò. La tua storia mi ha commosso. Vorrei trovare tra queste pagine un’ispirazione per la mia musica e una risposta per te che ora non sono in grado di dare. Io sono John, qualcuno mi chiama Bonzo». Ismaele conosceva a memoria le canzoni del primo album dei Led Zeppelin ma non sapeva che quell’uomo era John Bonham, la bestia, il batterista del gruppo.

Si salutarono cordialmente con la promessa di rincontrarsi.

Passarono i mesi, il barista era quasi rassegnato alla perdita del suo prezioso tesoro, quando si presentò nel pub un tizio per consegnargli una busta quadrata in cellophane. All’interno il secondo LP del dirigibile marrone: Led Zeppelin II e un biglietto per il concerto della presentazione del nuovo album della band inglese. Nessuna altra indicazione. Qualcuno in quella città grigia gli voleva bene, attese con trepidazione il giorno del concerto.

Grande fu la sorpresa quando presentando la sua prenotazione fu accompagnato in un posto in prima fila dove sulla poltroncina trovò il suo libro e un foglio con la scritta -Call me Ishmael-
Man mano che le canzoni susseguivano una dopo l’altra, la sua attenzione si spostò sul batterista John Bonham. Conosceva quel tipo, era lo stesso che aveva suonato nel suo locale.

Con difficili e frequenti variazioni ritmiche, Bonzo picchiando duro su cassa, piatti e rullante accompagnava ogni pezzo con semplicità creativa e inimitabile devastando il panorama sonoro. Il suo tuono ritmico rendeva sempre più compatto il suono perfetto degli altri tre componenti della band, proprio come colpo dopo colpo il martellamento nella fucina di Santo trasformava il ferro incandescente nel pezzo richiesto.

Quando il cantante Robert Plant presentò il brano Moby Dick, un’ ovazione dei presenti si elevò al punto che avrebbe potuto far crollare il tetto del teatro.
John, prima di iniziare, impugnando la bacchetta nella mano destra la puntò dritta verso Ismaele. Un sorriso d’intesa. Dopo un’introduzione di chitarra e basso, il lungo assolo della batteria dominò la scena per un quarto d’ora. Ismaele estasiato riconobbe il brano sentito in anteprima nel suo locale ma dilatato a dismisura nel tempo. Il titolo della canzone era lo stesso del libro che stringeva tra le mani: un caso? O un omaggio ad un ragazzo che aveva condiviso una birra e una pagina patinata?. L’emozione prese il largo e il cuore cominciò a battere al ritmo dei tamburi mentre una voce gridava nella tempesta: « Call me Ishmael, Call me Ishmael»

Rilesse la frase e poi girò il foglio, sul retro c’era un messaggio firmato John Bonham:
Caro amico, ho letto con piacere il libro. Io non so esprimermi a parole, parlo con le mani, mi riesce meglio. Cercavo una risposta per la tua storia e l’ho trovata nella stessa pagina che avevi letto a me la sera del nostro incontro:

“ una cicatrice sottile come una bacchetta, lividamente bianca, un segno particolare che talvolta s’apre nel tronco dritto e superbo di un grande albero quando è lacerato da un fulmine scagliato dall’alto che, senza schiantare un solo ramoscello, scortica appena la corteccia e vi traccia un solco, da cima a fondo, prima di sparire nel suolo, lasciando la pianta ancora verde e viva, ma segnata.

So che comprenderai queste parole. Il libro non ti darà altre indicazioni. Qui non c’è più niente da cercare. Torna a casa, la tua famiglia è là.

Il ragazzo chiuse gli occhi. In una zona oscura del cielo, la corazza marrone del grande dirigibile volante si frantumò come un guscio d’uovo per far spazio alla balena bianca che fluttuando tra le nuvole-onde s’inabissò nella luce bianca della luna.

Mary Bloody Mary

L’Associazione Culturale PescePirata, in occasione della festa della donna, ha proposto un concorso letterario che ha come protagoniste proprio le donne. Ma non donne qualunque, no. Donne arcigne, combattenti. Donne incazzate, che non si piegano, che non ci stanno ad abbassare la testa. Donne fiere di esserlo, che pretendono i loro diritti (e se li prendono).

Questo è il mio racconto:

Mary Bloody Mary

Nel paese incantato dei sogni le creature delle favole escono dai libri per recarsi alla reggia di King Cole. Nella sala dei banchetti il pifferaio magico, i tre porcellini, Little boy blue, Cappuccetto Rosso, la Regina di Cuori, Hunpyy Dumpty e tutti gli altri fanno a gara per presentare numeri e spettacoli fino allo scoccare della mezzanotte. All’ultimo tocco, quando tutti i protagonisti sono andati a letto, chi conosce la voce del silenzio può sentire i passi vestiti di rosso barcollare per strada e il vento che urla: “Play me my song , Mary, Bloody Mary”.

Da qualche parte una bambina sta piangendo. Da qualche parte un bambino ha perso la testa.

Una scopa spazza via i pezzi rotti della vita di ieri; Cynthia Jane De Blaise-William entra nel Musical Box per il solito cocktail.

Quattro grosse prese di sale sul fondo dello shaker, due di pepe nero, due di pepe di Caienna, uno strato di salsa Worcestershire, una spruzzata di succo di limone, ghiaccio tritato, due once di vodka e due di spesso succo di pomodoro. Henry Hamilton-Smythe dietro al bancone scuote lo shaker, filtra e versa la bevanda insanguinata nel highball, vi infila una stecca di sedano, lo porge all’amica, la guarda e dice: “Ciao cara, è un po’ di tempo che non vedo la tua faccia. Hai finito di stare in galera per causa mia? Sei sempre la solita bambina viziata? Ciao, ho detto ciao, perchè non mi rispondi? Questo è l’unico posto dove puoi incontrarmi. Sono l’unico uomo che hai mai avuto, mi correggo, che avresti potuto avere se fossi sopravvissuto ai tuoi colpi di testa. Siamo una bella coppia tu ed io, su quest’isola nel mare dell’oltre. Ti voglio amare per sempre, non ti lascerò mai. Apri il tuo cuore e lascia scorrere i sentimenti. Non sei stata sfortunata a incontrare me. Ho sbagliato il primo passo e tu mi hai subito rubato la scena scaraventandomi dietro le quinte o meglio ancora, nella botola del suggeritore.

Il mondo attraverso il bicchiere è un campo di croquet che si perde a forma di triangolo isoscele in lontananza nell’orizzonte. L’erba del prato è rasata a fasce longitudinali, bicolori per l’alternanza del senso del taglio.

Nella battaglia tattica si gioca con quattro palle, Blu e Nero contro Rosso e Giallo; lo scopo del gioco è quello di segnare punti facendo passare con un colpo di mazza una palla sotto gli archetti disposti a formare il percorso, al termine del quale si deve colpire un picchetto al centro del campo.

Ma non sempre si gioca in questo modo.

Oltre il vetro del cocktail rosso le palle del gioco sono sostituite dalle teste di tanti piccoli Henry.

Cynthia quando aveva nove anni giocava con Henry. L’abilissimo, dispettoso e antipatico coetaneo ogni volta che segnava un punto la sfotteva e le tirava i capelli; una volta le mise le mani addosso e le strappò la catenella d’oro che portava al collo. Da quel giorno crebbe nella ragazzina la sensazione che il suo compagno la guardasse in modo strano, come un arciere pronto a colpirla con la sua freccia. Quando lo sentì dire : “Il mio uccello vola in alto, scivola tra le mie mani, prendilo, toccalo” alterata più del solito brandì con gran forza la mazza di legno e con un colpo spettacolare staccò la testa dal collo del suo avversario facendola ruzzolare nella porta arcuata. A chi la interrogava sul misfatto, la piccola con estremo candore rispondeva: “Lui continuava a dire che con la sua testa poteva centrare ogni bersaglio; penetrare in ogni fessura. Non ho fatto altro che assecondare il suo desiderio”.

Due settimane dopo la tragedia, la bambina, ribattezzata Bloody Mary dalle male lingue, rovistando tra i giocattoli nella cameretta di Henry alla ricerca della propria preziosa catenella scoprì il carillon. La memoria registrata sul cilindro metallico mettendo in vibrazione le lamelle riproduceva una vecchia filastrocca:

“Old King Cole era una vecchia anima allegra, voleva la sua pipa, voleva il suo arco e voleva i suoi tre violinisti”.

Dalla scatola decorata uscì una piccola figura di spirito: Henry era tornato. Roteando a tempo di musica, il suo corpo iniziò rapidamente ad invecchiare. Il piccolo protagonista tornato dall’aldilà sotto forma di un vecchio lascivo cercava invano di soddisfare sulla ex-compagna di giochi le pulsioni carnali represse da una vita interrotta.

Cynthia sorseggia, mastica il sedano, carica la molla dello strumento musicale; un solo giro perchè la vita di Henry dura tutto il tempo della filastrocca. “Il mio uccello vola ancora in alto. Hai creduto che volessi farti del male e invece volevo solo insegnarti ad amare, legarti a me come la catena che brillava sul tuo piccolo seno e che ora tieni nascosta sotto il cuscino. Ora sei una donna, hai il tempo dalla tua parte. Fatti vedere in viso, tira indietro i capelli, lascia che conosca il tuo corpo. Sto aspettando qui ogni volta. E tutto il tempo che è passato sembra quasi non avere importanza ora se te ne stai lì con il tuo sguardo fisso dubitando di tutto ciò che ti dico. Perché non mi tocchi. Toccami.Toccami. Ti voglio ora”.

Il bicchiere è vuoto, il carillon sta terminando la sua corsa.

Il vento riporterà i nomi che ha soffiato nel passato?.

Cynthia sussurra: “No, questa è l’ultima volta”. Scaglia il bicchiere contro il vetro della finestra. La musica è finita e il vento non soffia più. Henry non tornerà.

Ma tu che leggi se vuoi sentire la canzone di Old King Cole, devi fare girare sul piatto il disco dei Genesis: la voce di Peter Gabriel ti trasporterà sul campo di croquet nel bucolico paesaggio al tramonto del sole dipinto da Paul Whitehead e poi…puoi sempre scegliere di naufragare nel mare insanguinato di un Bloody Mary.

Una tranquilla resa alla fretta del giorno

Sono un uomo come tanti, in un momento tutt’altro che semplice. Cammino da tre giorni, vagando in radure e boschi. Mi sto perdendo per pagare il prezzo della strada che ho scelto: morire tra gli alberi, su un letto di foglie secche.

Il mondo dei vivi è lontano. Cè un tempo per correre, un tempo per nascondersi e un tempo per fare l’ultimo viaggio. Nel sollievo della morte potrò trovare la pace che nella vita non ho mai incontrato.

Preferisco morire a testa alta che vivere quel che mi resta nella paura.

Il killer dentro di me sta allargando il suo dominio ma non mi lascerò abbattere da lui.

Combatto i morsi lancinanti del male incistato nell’ addome procurandomi ferite alle mani e graffi sul viso mentre mi apro il passaggio tra rovi e sterpaglie.

Il cuore aumenta i suoi battiti. La fame non è più un problema. Sono talmente esausto che potrei addormentarmi appoggiato ad un tronco e morire nel sonno. È ciò che voglio in fondo. Ho lasciato definitivamente il mio vivere tra la gente, nessuno piangerà per me, ho passato gran parte del mio tempo a fuggire le persone, nessuno verrà a cercarmi. Sono un solitario.

Il fiato si fa corto. Mi accascio abbandonandomi sul dorso.

Guardo il cielo, palcoscenico di questo ultimo giorno. Il sipario della notte cala sulle quinte degli alberi. La vista si annebbia per un momento, sono consapevole e lucido, non è ancora la mia ora, sarebbe troppo facile.

Il mio programma prevede che non lasci niente su questa terra. Facilito il compito della natura spogliandomi di ogni indumento per uscire dalla vita con lo stesso vestito col quale sono entrato.

Appoggio la testa sul cuscino di panni e stringo nella mano sinistra un tubetto di pillole che aiuteranno l’ultimo sonno ma sono tanto stanco e mi assopisco in un amen.

Mi sveglia il soffio del vento tra le querce e i castagni. Sono ancora vivo.

Sento un fruscio. Passi leggeri sullo strame in putrefazione sollevano odore di funghi.

Passi accorti di qualcuno in ricognizione. Chi si aggira in un posto simile di notte se non un altro essere solitario?.

Si sta avvicinando, sento il suo ansimare, forse ha camminato a lungo come me. Cosa starà cercando?. Sarà un altro essere in cerca di morte o forse combatte con la vita, per la vita, la propria vita.

Eccolo. È vicino, riesco a distinguere quattro zampe. È su di me, mostra i denti affilati, lunghi e ricurvi ma subito il suo ringhio si tramuta in un mugolio domestico, mi annusa, lecca il sangue delle mie ferite. Sento la sua lingua ruvida sul mio volto. Sto immobile ma non ho paura. Perdere la vita è quello che voglio, non è una vergogna se non hai più nulla in cui credere e sperare.

La nube che oscurava la luna si è spostata più avanti.

Ora lo vedo meglio: fronte ampia, occhi chiari dal taglio leggermente obliquo, le orecchie in posizione eretta lungo il profilo della testa: è un lupo. Questa splendida creatura sicuramente ha fiutato il mio odore di morte, si accuccia accanto a me incrociando le zampe sul mio petto nudo. Non ha fretta. Il suo pasto è assicurato. Punta gli occhi nei miei. Cosa aspetta?. Forse non vuole che lo fissi mentre mi sbrana. Vigilerà il mio sonno-veglia e quando abbasserò le palpebre mi azzannerà alla gola. Berrà il mio sangue, farà a brandelli il mio corpo scegliendo le parti migliori. I lupi di rado mangiano quotidianamente e quando ne hanno la possibilità arrivano a ingurgitare parecchi chili in un pasto.

Potrei anticipare il suo intervento con uno scatto improvviso e farla finita subito ma prendo tempo e sto in contemplazione del suo muso circondato dall’aureola lunare. Allungo lentamente una mano per accarezzarlo, non ho niente da temere, quello che deve fare lo farà nè piu nè meno; sembra godere del passaggio della mia mano sul suo pelo.

Questo guerriero è un altro vagabondo dagli occhi spalancati che arriva da lontano. Ci guardiamo nell’intervallo incantato. Siamo talmente a contatto che sento il pulsare del mio cuore al ritmo del suo. Una forte suggestione mi comunica il suo pensiero: «La vita é una strada molto lunga che non dovremmo percorrere da soli. Ma se trovi il giusto compagno non ti sentirai così sfinito alla fine dei tuoi giorni».

Ho allontanato il calore del mondo che girava con me, ora ricevo calore dal suo corpo accovacciato sul mio. Quando non c’è più speranza in vista, c’è una possibilità di trovare una risposta nel cielo molto più grande di quanto ci si possa aspettare. Non ho bisogno di una preghiera, mi affido a questa possibilità mentre lentamente mi allontano dalla terra e mi avvicino alla luna.

Sono stato un uccello in gabbia costretto a cantare ogni giorno una melodia stonata, ora che ho le ali libere mi lancerò in picchiata come un falco incontro alla morte.

C’è una rima e una ragione a spiegare la poesia di questo mondo selvaggio e la trovo ora che il mio cuore di viaggiatore batte il suo tempo prima di essere lanciato in orbita tra le stelle..

Da qualche parte nel profondo della mia anima sento che è arrivato il momento.

L’eco perfetto di un ululato riflette contro un anonimo muro di cielo. Non è un fluttuante canto modulato alla luna ma un richiamo alla predazione. Non è un solitario, mi ero sbagliato è un capo, sta invitando il suo branco al banchetto.

In un universo in cui regna la morte, si restituisce alla morte quanto le appartiene affinchè la vita penetri le zone necrotizzate dell’essere.

La notte termina ai margini dell’aurora in fiamme; una tranquilla resa alla fretta del giorno.

Nella luce del mattino le cose appaiono diverse da come apparivano nelle ore precedenti.

Vedo i resti di un essere umano su un letto di foglie disfatto. Un ronzio di mosche circola nell’aria, mentre una fila di formiche sta arrivando per pulire la scena. Alla fine, le ossa brilleranno al sole e poi una manciata di polvere sarà l’eredità lasciata alla terra.

Ho bisogno di bere e una gran voglia di correre. L’orizzonte intorno mi appare al di sopra dei cespugli di erica. Sento lo scorrere di un ruscello, il mio istinto mi dirige presso la riva. Un diga di castori ha creato una pozza d’acqua. Alcuni animali che si stavano abbeverando come mi vedono apparire svaniscono spaventati dalla mia presenza. Immergo la lingua nell’acqua e bevo grandi sorsate per dare refrigerio alla mia gola secca.

Lo specchio liquido riflette una figura diversa da quella che ho sempre visto fino a ieri. Assomiglia a qualcuno che ho lasciato da poco. Mi guardo attorno spaventato, non c’è nessuno oltre me. Mi riavvicino all’acqua per ritrovarmi.

Gocce di sangue, scaglie di osso e di pelle come i frammmenti di vetro nel caleidoscopio generano strutture simmetriche create dalle riflessioni negli specchi: le figure mutano e cambiano colore e forma.

Chi rinuncia allo sguardo impuro non perde la vista, il suo corpo viene anzi illuminato da una luce pura; rinunciando al mondo non lo perde, ma lo assorbe nella sua solitudine.

Sono un lupo.

Una nuova tappa nel cerchio sacro, l’inizio di un’altra storia, altri affanni, altri dolori, gioie e bisogni. Il mal di vivere si espia sulla terra. Sarò costretto a starmene qui per cercare l’armonia e la gioia di vivere che nella precedente esistenza non ho saputo trovare. Lascio cadere una lacrima. Le nuvole temporalesche potranno infuriarsi e lamentarsi, le raccoglierò nel tubetto di latta come fossero farfalle.

Il diario blu

Ieri pomeriggio  mentre stavo rovistando sulle mensole in cantina per cercare non so neanche io cosa  mi è capitato tra le mani un diario-agenda con la copertina in pelle blu sul quale durante l’anno scolastico 69/70 trascrivevo testi di canzoni del tempo.

Ho aperto a caso: sulla pagine sinistra avevo disegnato  un’anatra che si alza in volo tra i rami di fiordipesco, ricordo di averlo copiato da un quadro giapponese; sulla sinistra appare scritta con una calligrafia piuttosto difficile da leggere questa poesia di James Joyce:

 

Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti,

malia dei caduti serafini?

Non dire più di giorni seducenti.

 

Il cuore all’uomo cogli occhi arroventi

ed eccolo piegato ai tuoi fini.

Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti?

 

Fumi di lode salgono sui venti

dall’orlo dell’oceano ai tuoi confini.

Non dire più di giorni seducenti.

 

Le nostre grida e i lugubri lamenti

t’innalzano i loro inni più divini.

Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti?

 

Le mani ministranti, tra le genti,

ti levan calici colmi di vini.

Non dire più di giorni seducenti.

 

Non la scrissi io, fu una dedica da parte dell’insegnante di italiano di quell’anno in cui frequentavo la seconda ITIS in una classe tutta al maschile.

Il suo nome era Ludovica ma noi tutti l’avevamo ribattezzata l’Angiolona durante e dopo la lettura del libro di Svevo dal titolo Senilità che la profe aveva scelto come fuori testo per letture e discussioni in classe.

Alta, bella, con lunghi capelli ondulati che le coronavano la testa, ci aveva fatto quasi tutti innamorare di lei; a quell’età è abbastanza normale. Al suo arrivo e alla partenza  facevamo a gara per accompagnarla e portarle i libri o la borsa dalla ‘500  beige alla scuola e viceversa, anche perchè aveva una gamba ingessata e per camminare era obbligata a servirsi di una stampella.

Era supplente e ai primi di maggio ci disse che sarebbe stata sostituita da un insegnante maschio per l’ultimo mese di scuola; una tragedia per  tutta la classe  che aveva trovato in quelle ore di lezione uno dei motivi che ci spingevano particolarmente ad amare la scuola.

Io avevo un ulteriore problema: il mio modo di comporre, che lei diceva fosse particolare: «Sei sempre fuori tema, ma è un piacere leggere quello che scrivi» quindi mi dava due voti, uno insufficiente e uno più che buono aggiungendo a voce: « ricorda che un altro insegnante non accetterà quello che scrivi».

Il giorno dei saluti il capoclasse lesse un pensiero di ringraziamento e di commiato molto coinvolgente, ci commovemmo tutti, compresa l’insegnante che ci chiese il favore di non abbracciarla con la scusa che stava cominciando a camminare senza ingessatura e avrebbe rischiato di perdere l’equilibrio; forse temeva di non essere abbastanza forte per contenere le sensazioni di tutti noi che non volevamo lasciar andare via una persona alla quale avevamo voluto bene e ci aveva aiutati a fare un passo avanti in quel periodo delicato e sognante dell’adolescenza.

 

 

Down to you per Anna Maria

Il blog – Cronache di Mutter Courage- presenta un’immagine colore seppia di una donna con una gonna lunga e larga che arriva fino ai piedi; sul giaccone di stoffa pesante porta all’occhiello una  pochette che ai miei occhi appare come un fiore bianco. Cammina fiera in una strada dove i carri hanno ruote di legno e sono trainati da cavalli. Sulle sue pagine Anna Maria Curci propone poesie come questa:

                                      Non sparo io ai gabbiani,

vivi li preferisco

con pan di segale li nutro

e zibibbo rossiccio.

Umano, neppur per caso il volo

dei gabbiani raggiungere potrai.

Dovessi chiamarti Emma, accontentati

allora di aver pari sembiante.

Non so niente io di poesia ma queste parole di Christian Morgenstern mi danno il conforto come se  le avessi sentite recitate da mio padre nelle sere d’inverno quando tornando dal rosario ci appoggiavamo con la schiena alle pareti refrattarie del vecchio forno per recuperare calore in attesa della cena. Chi lavora di notte, dorme nel pomeriggio; i momenti di vita in comune con i propri figli sono rari e io li sfruttavo per sapere qualcosa della sua vita. Parlava poco mio padre e solo per raccontare di persone buone, di chi gli aveva voluto bene, e quando chiedevo della guerra erano silenzi e sguardi nel vuoto. Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale il fornaio portava il pane appena sfornato nel paese vicino con un calesse dalle ruote di legno trainato dalla cavalla; aveva trentadue anni quando lo richiamarono nell’esercito; il fante non ebbe tempo di sparare  e forse non l’avrebbe mai fatto; lo fecero prigioniero sulle coste della Jugoslavia e lo portarono in un campo di prigionia ad Essen dove con altri compagni fu impiegato nella produzione di ordigni bellici. Rivelò quasi niente di quel periodo, forse per non comunicare gli orrori che vide, per lui il mondo era buono. Quel che portò dalla Germania furono frasi stringate che non riuscivo a collegare tra loro, una forchettina d’argento che ricevette in cambio di qualche pacchetto di sigarette da una donna tedesca che trafficava nel mercato nero oggetti recuperati tra le macerie della città dopo i   bombardamenti e alcune frasi di una canzone imparate a memoria: -Wie einst Lili Marleen. Mit dir, Lili Marleen-.

La canzone scelta da Anna è Down to you  composta da Joni  Mitchell ma proposta dai Colosseum II,  la band che il batterista Jon Hiseman sopravvissuto col bassista  Mark Clark alla storica formazione del ’68 riformò nel ’75. In questa nuova formazione la parte da leone però la fa Gary Moore il chitarrista che ha fatto storia e scuola per il suo stile inconfondibile. Con tutta onestà devo dire che non ho mai seguito i Colosseum II, in quegli anni ho ascoltato poca musica, preso com’ero dall’inserimento nel mondo del lavoro, l’amore, il matrimonio, i figli.                                                                    Non è possibile ascoltare questa canzone su Youtube ma le vie del web sono infinite, soprattutto se hai amici come Anna Maria.                                    Dopo l’introduzione del suono limpido di una chitarra rock blues si  riconosce nelle parole e nella melodia la stessa canzone incisa da Joni per l’album Court and Spark. Confrontando le due versioni, al primo ascolto lo stile sembra molto diverso, le riaccomuna  immediatamente la virata del sound verso le spirali liberatorie del jazz-rock, grande amore di entrambi gli artisti.

Love is gone

written on your spirit this sad song

love is gone

everythinh comes and goes

Pleasure moves on too early and trouble leaves too slow

Lo scontro tra la fragilità delle anime sensibili con un mondo gonfiato di apparenze lascia un segno indelebile, una cicatrice compagna di viaggio nella ricerca di un sé più profondo nel doloroso confronto con gli inevitabili alti e bassi delle relazioni affettive, la disanima di tutto quello che l’amore regala e subito toglie.

Luglio 1974. Una domenica pomeriggio in piena estate. Con la centodecima compagnia  di mortaisti avevamo fatto rientro alla base accampata sulle rive del piccolo lago in val Senales, dopo una escursione di tre giorni con pernottamento nel rifugio sul ghiacciaio del Similaun. La discesa a valle era stata snervante a causa della tensione per l’allarme slavine e da un gragnola di chicchi ghiacciati che ci investì quando ormai eravamo fuori pericolo. Accucciato alla sponda del torrente  ero intento a lavare la gavetta e le posate quando da una radiolina portatile mi arrivarono le note di una canzone che avevo ballato l’estate precedente con una ragazza che frequentavo e per la quale avevo una cotta che bruciava parecchio da quando l’avevo vista baciare un mio amico poco tempo prima della mia partenza per il servizio militare.Le parole di Patty Pravo  ripetevano -non te ne andare, non te ne andare, non mi lasciare-.

Il groppo che avevo in gola si sciolse in lacrime e la forchetta scivolò tra i massi e fu trascinata via dalla corrente. In quel momento sentiì chiamare il mio nome dal furiere sopraggiunto con la posta arretrata. Aprii la lettera con le mani ancora bagnate di acqua dolce e salata.  Nelle informazioni di mia madre c’era la notizia dell’inizio dei lavori per quella che sarebbe stata la mia futura casa e  nell’ultima riga, prima dei saluti, il numero del telefono che ci avevano appena istallato. In compagnia di un amico inseparabile raggiunsi il posto telefonico nel paesino in riva al lago, feci il numero e dopo qualche squillo mi rispose la voce di mio padre. Non me lo sarei mai aspettato!. Riconobbe subito la mia voce. Poche parole per dire che era solo in casa, poi, silenzio come al solito, per stare ad assorbire tutto quello che avevo da dirgli, e fu poco, perchè si parlano poco coloro che parlano con gli occhi. Ma mi bastò. Avevo imparato col tempo a lavorare con fantasia alle sue parole centellinate. Poche frasi da conservare come pietre preziose nel mio scrigno segreto  spensero la fiamma che mi aveva scottato qualche attimo prima. Ogni cosa viene e va. Sul bancone del gasthof due bicchierini di grappa di pere da buttare giù in un fiato. I veri amici hanno il dono di capire le cose al volo. Io pagai il secondo giro alcoolico. Per quanto fossi un alpino buferato, l’alcool non lo reggevo più di tanto e, arrivato all’accampamento mi allungai sull’erba fresca e profumata del prato di montagna. Qualche istante per penetrare tra le nuvole con lo sguardo e il  sonno profondo aprì il suo sipario: la grandinata si trasformò in una pioggia di bombe, un soldato superò la recinzione di filo spinato per aiutare una giovane donna a trascinare un carretto al riparo di quello che era rimasto di una casa. La coppia abbracciata nella notte sotto un cielo di bombe e stelle, la forchettina d’argento, un fazzoletto bianco sventolato in aria  alla stazione per salutare il soldato affacciato al finestrino della tradotta militare. Il ritornello musicale -non te ne andare, non te ne andare, non mi lasciare mai-  che ossessivamente accompagnava le scene del mio sogno;  quel non- non- non, si trasformò poco alla volta in un don- don- don, e poi din- den- deng e infine  deng -deng- deng. Mi svegliai di soprassalto: una mucca stava brucando l’erba a pochi passi da me.

Il rumore dei fiori di carta

Propongo una composizione a quattro mani scritta un paio di anni fa con una giovane amica che ogni tanto scrive poesie. Lo spunto lo abbiamo preso da questo video.

Solo il perdono mette fine al dolore nel cuore.
Oscilla il lume
della ragione
e riporta ciò che oramai non si può raggiungere
tra insonni tormenti
le foglie del tempo come onde sulla spiaggia
quando viaggiare non serve
per scappare da sè stessi
e il ricordo ti raggiunge
infuocato di realtà.

Volersi illudere
della miglior fine,
un salto nel fuoco
macina legata alla cravatta
per non sentire…
senza ali cade verso il fondo.

Persino la luna tace.
L’uomo non può volare
sui gesti umani
tra incroci e lampioni
simili coscienze ed animi
di chi da.. e chi riceve,
con le corse di una vita in castelli di sabbia
crollati per vigliaccheria.

Nessuno è davvero crudele
di proposito.

La torre da lo scacco al re
attraversando
la realtà che ci spinge a fuggire…
non ci sono più zolfanelli
per la candela di menzogne
puntata al petto,
il tempo non finirà
una pistola serpente sibila negli orecchi,
il sorriso di una presenza negata
scandisce vita e morte
di continuo
lacrime di cera
scale di falsità.

In marciapiedi di miseria
fuga in un mondo all’indietro.

L’incubo dell’enigma umano
così forte erige torri,
fragile le abbatte.
Il rifiuto sconfigge il rimorso
sguardi da lontano
scivolano su pietre levigate
ed è solo polvere
disordine, istinto primitivo,
corde pizzicate
strappate come scarpe di bambina
sulla via del ritorno..
lo spoglio del dogma
secondo propria natura.

Illuminando la strada lastricata di assenza
un lampione ad olio sul ciottolato
gioca con le nuvole
e il bagliore della luna.

L’egoismo
fa stringere solo sabbia.
L’inferno nudo del fiammifero
brucia le tempie come uno sparo
è la strada più breve..
in fanali d’auto alla finestra.
Flash di disperazione
e rimorsi da voli spietati
al suono della tromba solitaria.

Una lanterna trema alla sua luce
bambini in angoscia
urlo nella notte.

Ed è forse nell’omega,
l’alfa
di un nuovo smarrimento
dove dal niente
l’acquarello cobalto del mare
crea nuovi orizzonti,
e la speranza edifica
sabbia bagnata
sotto troppo sole.

Silenzio.

Potrei stare via per molto tempo

Ho scritto questo racconto più di un anno fa , poi l’ho lasciato riposare e quest’anno dopo averlo ripreso l’ho inviato al concorso “La vita di un senza dimora” e La casa di cartone e Sul Romanzo hanno deciso che era il vincitore (per onestà devo dire che da quello che ho capito non hanno partecipato in tanti). Io comunque la mia soddisfazione me la sono presa e domani 17 Ottobre 2012 alle ore 21.30 sarà letto in piazza dell’Immacolata a Roma durante la manifestazione della Notte dei senza dimora.

Condivido la mia gioia con Cristina Bove vincitrice per la sezione poesie con la splendida”Senza fissa dimora” .

Il mio nome é Habib, stanotte ho dormito su un  vecchio materasso adagiato su pallets di legno di pino in un casolare abbandonato tra i vigneti di queste colline lombarde.

I topi hanno mangiato l’ultimo pane rimasto nella bisaccia, pensieri e  spasmi allo stomaco hanno distrutto il silenzio nel buio .

Le raffiche di vento contro la porta  risuonano nei miei orecchi come la burrasca che sferzava il nostro barcone nella traversata del mare di Sicilia una decina di anni fa.

Un cane abbaia alla luce del giorno in ritardo. Cammino sulla carreggiata erbosa e mi chiedo ad ogni respiro se c’è qualcuno che sa, se c’è qualcuno che se ne preoccupa, le mie tasche vuote dicono che non ho amici e questo  mi martella il  cervello e la pancia. Ho cercato  lavoro e  denaro camminando per miglia,  così affamato da  non saper mostrare un sorriso. Ho speso il mio ultimo euro per cinque pani che non ci sono più. Gli occhi si perdono in lontananza  su questa terra che non mi appartiene, niente mi appartiene qui, non ho un fazzoletto, un pezzo di carta, mi sfrego il naso gocciolante con la mano. Come un cane infreddolito ululo 
il mio nome, ma non conta niente, e la mia età ancora meno. Il mio paese si affaccia sul Mediterraneo, lì  mi hanno insegnato  ad obbedire alle  leggi e che  Dio é con noi. La ragione per continuare a vivere non l’ho mai capita ma ho imparato ad accettarla  con orgoglio perché non conti i morti quando hai Dio dalla tua parte.- – Il vostro  Dio non è il nostro-  dicono qui, e ci trattano come furono trattati gli ebrei;  siamo noi  da combattere, odiare, temere, cacciare, noi a  correre, nasconderci, noi a dover accettare tutto coraggiosamente. Non devi mai fare domande quando Dio è con te. Sono nato sul confine nord della Tunisia; mia madre si ammalò quando ero ancora bambino; sono stato cresciuto da mio fratello, fino a quando un giorno non tornò a casa, come mio padre prima di lui.   Mi aspettava un lungo inverno di fame, potevo vederlo dalla  finestra della mia bocca;
 i miei amici non avrebbero potuto essere più gentili  ma stavano peggio di me. Attraversammo il mare in primavera,  quando le tristi silenziose canzoni facevano raddoppiare il tempo, in attesa che il sole tramontasse. Ho perso la mia dignità per un qualsiasi straccio di lavoro percorrendo questa terra italiana da sud a nord, consumando i miei sandali,   stivato come un animale sui carri-bestiame. Ho raccolto arance, pomodori, limoni, munto pecore  e capre, pulito stalle  e   vetri delle macchine, venduto tappeti, collane e ciondoli sulle spiagge. Qui dove le fabbriche sono porta a porta, grazie all’aiuto di un amico trovai un lavoro e  iniziai a vivere  col sole alla finestra  mentre gli anni passavano bene con il piatto della mensa sempre pieno. Poi il lavoro diminuì senza ragione ad un turno di mezza giornata; diminuì ancora e la temperatura dell’aria congelò quando un uomo venne a dire che nel giro di una settimana la fonderia numero tre sarebbe stata chiusa perché  non rendeva abbastanza – è  più economico nelle città dell’Est-  lì, gli operai  lavorano quasi per niente. Nel  dormitorio che puzzava di alcol ognuno parlava tra sé e sé mentre  il silenzio andava aumentando, finché svegliatomi una mattina  compresi che il buon tempo era finito,  il suolo si stava raffreddando attorno a me. -C’é la crisi e voi ci portate via il lavoro- leggevo sulle facce degli uomini fuori dai bar. I vecchi sulle panchine del parco dicevano che l’intera città si stava svuotando di quelli come noi,  non c’era più niente qui che  mi potesse trattenere . Ho pregato il Signore lassù di mandarmi un aiuto. Mi ha mandato Moses, il muratore. Ha detto che se voglio lavorare mi devo svegliare presto perché ci vogliono due ore per arrivare sul cantiere; le quattro corsie dell’autostrada non bastano a smaltire il traffico in entrata a Milano. Al luogo stabilito, il mio sguardo incomincia a sfocare non appena giro la testa verso il punto dove il mio amico ed io ci dobbiamo incontrare,  fisso la strada, il marciapiede ed il segnale stradale. Non verrà?. Che ore sono?. Un inquieto ed affamato presentimento che non dice niente di buono, il pulmino dei manovali è già passato, mi sono svegliato maledettamente in ritardo. Forse no!  Non faccio a tempo a vedere la mia ombra proiettata sulla strada dalla luce dei fanali  della vettura sopraggiunta all’improvviso dietro di me. Uno schianto. Inghiotto l’urlo di dolore. Sto volando nell’aria di questo mattino di settembre. Non sento più le gambe, il cervello sta sanguinando, i miei occhi fissano un cielo color porpora.

Sto navigando verso il  mio unico vero amore.

Little Wing per Alessia

In due minuti, Jimi Hendrix un giorno decise di mostrarci la sua anima e tutti ci accorgemmo che la sua anima era tanto tanto bella.

Little Wing parla direttamente all’ascoltatore e se compresa trasmette sensazioni di incanto e di rapimento. L’ordine ritmico tradizionale viene alterato, dopo l’introduzione la chitarra fraseggia e ricama sulla voce filtrata fino a sfociare nell’assolo solenne e nel contempo timoroso. Con un prolungato riff iniziale, Hendrix si diletta in una calda jam elettrica correlata da liriche magiche e colorate con qualche traccia malinconica, stemperata con veloci rullate della batteria. L’eco finale della chitarra ci saluta con un assolo che non sentiremo mai perché sfuma nell’infinito.

La facilità di Jimi con ballate eleganti come questa mostra in effetti il suo notevole livello sia come musicista che come compositore.

Mi piace scrivere canzoni lente perché è facile metterci più blues e sentimento”.

La maggior parte delle ballate si compongono in modi diversi.

Qualche volte vedi le cose in maniera differente da come le vede l’altra gente; allora le scrivi in una canzone che può rappresentare qualsiasi cosa. Per alcune canzoni mi viene in mente prima la musica poi ci metto parole che stiano bene. Dipende. Non seguo un percorso ben definito perché non mi considero un paroliere, non ancora comunque, tengo solo la musica in testa che arriva agli in studio di registrazione.

Hendrix sviluppò l’idea originale per Little wing, una delle sue migliori e più tenere composizioni, mentre si esibiva come Jimmi James & The Blue Flames, al Greenwich Village.

. In alcune recensioni si legge che la canzone fu ispirata dalle droghe delle quali il chitarrista faceva uso.

. Altri dicono che la canzone fu dedicata a Lucille , sua madre.

. In un’intervista Jimi dichiarò: “ Little Wing era una ragazza molto dolce che arrivò e mi diede tutta la vita, ed io pazzo com’ero, non sono riuscito a darle ciò che meritava… Mi svegliano alle 7 e mezzo del mattino apro la porta e vedo qualcuno che mi piace molto. Prima di tutto ho pensato : -Cosa diamine ci fa lei qui? Che cosa vuole?- Lei mi chiese : -Posso entrare?-. Io ero lì, fermo, e mi piaceva molto, era davvero carina…doveva avere diciannove o vent’anni…anche se ne dimostrava di più. Così sono rimasto lì e poi…ci siamo rimessi a dormire. Nei tempi che ero per strada a morire di fame, le ragazze mi aiutavano, erano le mie migliori amiche; allora mi sono detto -devo mostrare loro il mio apprezzamento”.

 Guarda,sta passando tra le nuvole

con uno spirito funambolo che corre sfrenato.

Farfalle e zebre e raggi di luna e storie di fate,

questo da sempre è il mondo dei suoi pensieri.

cavalcando con il vento.

Quando sono triste lei viene da me a regalarmi mille sorrisi.

-Va tutto bene- dice- va tutto bene.

Prendi da me quello che vuoi.

Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa- .

Vola Piccola Ala

Voi cosa pensate? Quale fu l’ispirazione ? Una delle tre qui sopra? Cosa vi suggerisce il testo e la musica.

Orfeo negro per Amneris e Sole

Manha de Carnaval, è una canzone tra le più più popolari della Bossa Nova degli anni ’50, apparsa per la prima volta del 1959 nel film Orfeo Negro del regista francese Marcel Camus.

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Da Wikipedia:

Orfeo è un giovane tranviere di Rio de Janeiro che ama cantare e suonare la chitarra e tra i ragazzini del paese circola la voce che è lui, con l’armonia della sua musica, a far sorgere il sole.

Alla vigilia del Carnevale arriva a Rio una graziosa ragazza, Euridice, venuta ufficialmente a trovare la cugina, ma in realtà lì per sfuggire a un uomo misterioso che la perseguita. Orfeo, pur essendo fidanzato con Mira, se ne innamora. Durante il Carnevale, appare l’uomo misterioso e col suo costume raffigurante la Morte terrorizza Euridice, che fugge nel deposito dei tram. Orfeo, sopraggiunto, accende le luci ma per errore innesta l’alta tensione ed Euridice muore folgorata. Il giovane la porta tra le braccia fino alla sua capanna sulla collina, ma Mira e le sue amiche lo aggrediscono facendoli precipitare nel burrone dove i due sono uniti nella morte.

Un ragazzino amico con la chitarra di Orfeo prende il suo posto sulla collina prima dell’alba e con dita incerte inizia a suonare. La magia si compie, spunta il sole e inizia un nuovo giorno.

Mattina, che bella mattina

una nuova canzone nella vita

per cantare solo i tuoi occhi

il tuo sorriso e le tue mani

perché ci dovrà essere un giorno

in cui verrai.

Dalle corde della mia chitarra

che ha cercato solo il tuo amore

viene un canto

a parlare dei baci perduti

sulle tue labbra. 

Il finale del film ha suggerito il mio contributo a questa canzone che “manda letteralmente tra le nuvole” Amneris Di Cesare.

Nell’inverno ’85 decisi di imparare a suonare la chitarra, un desiderio coltivato da tanto e realizzato con l’acquisto di una 12 corde di marca coreana, uguale a quella del mio amico Sole che veniva da me ogni sabato sera quando mia moglie e il mio primo figlio uscivano per andare a mangiare una pizza, ed io rimanevo a casa con l’altro figlio Matteo, nato da un anno.

Sole ha una decina di anni meno di me; questo soprannome è dovuto alla canzone che da bambino cantava a squarciagola -Nel sole- di Al Bano.

Sole rimase orfano a sei anni; sua madre spesso non sapendo come affrontare la vita di stenti di quel periodo si attaccava alla bottiglia di vino, finché una famiglia benestante del borgo la prese come domestica e collocò il bambino in un collegio dove rimase fino al diploma di terza media.

Lento nell’apprendimento e negato allo studio, nelle ore di svago ebbe la fortuna di incontrare l’amicizia di un assistente che gli insegnò i primi rudimenti dello strumento a corde.

Tornato a casa cominciò subito a lavorare, sgobbando da mattina sera, sempre pronto a dare una mano, con le doti che caratterizzano quest’uomo con la mente e il cuore di bambino: semplicità, genuinità, dolcezza, generosità, e un’assenza di malizia disarmante che lo fa benvolere da tutti.

Mentre facevo spazio, preparando sedie, spartiti e chitarre, lui seduto sul tappeto accanto a Matteo giocava facendo correre le automobiline colorate o tentando di infilare nella scatola magica le formine di plastica, un’impresa quasi impossibile per lui.

La sua presenza era come miele nella mia casa, tranquillizzava il piccolo che si addormentava sul tappeto dopo i primi accordi delle canzoni dei Beatles.

Il mio amico suonava ad orecchio, non sapeva leggere spartiti e accordi, ma col giro di Do -imparato a memoria-, facendo scorrere velocemente la mano sinistra sul manico dello strumento, riusciva a suonare tutto, mentre io che con le mani ero un disastro, gli insegnavo nuove posizioni con l’uso del capotasto e così a poco a poco riuscimmo a suonare diverse canzoni del repertorio del quartetto di Liverpool.

A casa si esercitava ogni sera sempre sulla stessa canzone finche non la sapeva suonare alla “come dico io” e quando al sabato ci si ritrovava, mi mostrava i suoi progressi.

Una sera, arrivò con l’amplificatore e una chitarra elettrica luccicante: – Questa è come quella di Jimi Hendrix- i suoi occhi erano sfavillanti mentre la mostrava orgoglioso come un bambino che ha atteso un giocattolo sognato da sempre -Sono tre anni che sto mettendo da parte i soldi-

-Allora Sole la inauguriamo con qualcosa di speciale… The fool on the hill-.

Accarezzando le corde metalliche disse:

-Vorrei cambiare gli accordi iniziali alla mia maniera-.

Con una eco di sottofondo vibrato iniziò la sua incantata introduzione e poi aggiunse:

-Ti prego cantala per me, usa il microfono, tanto non disturbiamo nessuno, è tanto grande la tua casa e non ci sono vicini qui che battono colpi alle pareti-.

Musica e canto si diffondevano in tutta la casa e ritornavano a noi amplificate di magia.

L’emozione mi afferrò alla gola quando incrociai l’umidità negli occhi dell’uomo bambino che stoppando le corde ne bloccò il suono dicendo commosso:

-Dai, fammi sognare, parlami del concerto che faremo noi due di fronte a tanta gente venuta da lontano per ascoltare la nostra musica-.

-Gli spettatori seduti sulle pendici del monte che fa da anfiteatro al nostro paese punteranno lo sguardo sul palco piazzato proprio in centro al campo di girasoli…

Il più bel concerto che non abbiamo mai fatto.