Quattro chilometri

La triste estate del ’64 si concluse. Il 4 ottobre il presidente del Consiglio Aldo Moro inaugurava l’Autostrada del Sole, era la notizia principale in tutti i radio-giornali della giornata. Quella mattina il vento spogliava gli alberi disperdendone le chiome con raffiche violente. Aquiloni di foglie volteggiavano nell’aria dorata come un volo di passeri, e posandosi sul terreno lo ricoprivano col mantello dai colori autunnali: una festa cromatica nel paesaggio incendiato da fiamme rosse e gialle.

Quattro chilometri era la distanza dalla casa alla scuola media, Stefano la percorreva ogni giorno con la bicicletta di suo cugino, rimessa a posto per l’occasione: nuovi erano la sella, i copertoni, i freni e i fanalini. 

L’undicenne pedalava con la tranquillità di chi non ama correre e la prudenza di chi aveva ascoltato le raccomandazioni della madre: la strada non perdona, non c’è solo la riga bianca da guardare, attenzione, mani sul manubrio, marciare vicino al bordo destro della carreggiata e soprattutto non distrarsi, molto difficile per lui. 

La prima parte del tragitto non era trafficata, perfetta per rendersi conto di non stare più sotto le coperte; quando invece si immetteva sulla provinciale le cose cambiavano per la fila di camion e automobili che sfrecciavano per raggiungere la destinazione. All’ingresso del paese il panorama si popolava di bambini, ragazzi e adulti che a piedi o in bicicletta raggiungevano la scuola o il posto di lavoro.

Mentre le ruote sfioravano la terra, e lo sforzo gli gonfiava il cuore e i polmoni si sentiva come un uccello, libero di volare. Il breve viaggio era ogni volta una rivelazione; pedalando ad una velocità che gli consentiva di scoprirlo ne gustava i particolari concentrandosi sui dettagli. Oltre al mutare delle stagioni, il suo sguardo si soffermava sulle persone, a seconda di come erano vestite, dai movimenti e dalle espressioni del viso, le inquadrava e le incasellava nel suo immaginario.

La colonna sonora sulle storie degli uomini che popolavano il suo percorso quotidiano era suonata dal vento che accarezzava i raggi delle ruote e i tubolari del telaio della bicicletta come mani sulle corde di un’arpa

Fin dai primi giorni, una coppia in bicicletta calamitò la sua attenzione: un uomo che trasportava sul canotto della bicicletta una bambina, entrambi con le mani ben ancorate al manubrio.

La voce della bambina era un allegro cinguettio. Il padre, sfruttando la pendenza della discesa, le faceva da controcanto dialogando con lei. Lungo il tragitto alcuni passanti lo salutavano chiamandolo per nome –Gianni– altri gli rivolgevano al volo domande alle quali rispondeva cortesemente, spesso con battute allegre. Stefano ascoltava e di volta in volta raccoglieva le informazioni come tessere di un puzzle per completare l’immagine del ciclista e della graziosa passeggera. 

A quell’immagine si era sovrapposto un ricordo: quando seduto sul canotto coi piedi penzolanti di lato era lui il bambino e l’uomo al manubrio suo padre che pedalando con energia sulla strada sterrata e piena di buche percorreva l’incidentato tragitto fino alla statale dove una fila di persone sui bordi della strada attendeva eccitata il passaggio del Giro d’Italia del ’59. Quell’anno vinse Gaul, ma sulla bocca di tutti i tifosi era Anquetil il nome del corridore più acclamato. Tornarono e casa sconsolati. Erano andati per vedere Coppi, il grande campione ma il campione non partecipò quell’anno, la sua carriera stava finendo; l’anno precedente era arrivato trentaduesimo. L’anno dopo sarebbe morto per una puntura di zanzara. 

Ogni giorno, il ragazzo prima di arrivare all’incrocio dal quale sbucava la coppia, aumentava o rallentava la velocità per raggiungerli o attenderli e pedalare accanto a loro.

Nell’arco di poche settimane erano diventati compagni di viaggio. La bambina quando lo vedeva avvertiva il padre con il suono del campanello esclamando: «Ecco il gregario».

Gianni, il padre, a volte su richiesta dell’amabile passeggera intonava una allegra filastrocca: 

«Serafino aveva un sifolo, sifolava tanto ben

e quando c’era nigolo, il cielo diventava seren.

Serafin sé fèt, so chè, so mia se fa sifule, sifuleremo insiem. 

Tutte le donne facevano silenzio

per ascoltar quel sifolo, per ascoltar quel sifolo.

Tutte le donne facevano silenzio

per ascoltar quel sifolo, sifolava tanto ben».

Il canto era seguito dal fischio che ripeteva lo stesso motivo. La figlia cercava di imitarlo ma riuscendo solo a soffiare aria riprendeva il canto da sola. 

I due avevano in comune il taglio, la profondità e il colore degli occhi azzurro-cielo. La faccia cotta dal sole palesava le origini contadine dell’uomo e contrastava con quella madreperlacea della bellissima scolaretta, ma entrambe mostravano il sorriso di un armonioso legame affettivo, qualcosa di simile al profumo del pane appena sfornato.

Ogni giorno i tre raggiungevano insieme la scuola. Il padre accostava la bicicletta al muro, faceva scendere la piccola, le consegnava la cartella, si chinava per un bacio, vademecum necessario per cominciare bene la giornata, poi montava in sella e si perdeva nell’ingorgo dei veicoli per raggiungere i cancelli della fabbrica in fondo alla via.

I giorni del primo trimestre volarono, ma il rientro dalle vacanze di Natale presentò un cambiamento: non c’era la bambina sul canotto della bicicletta. 

Il volto del ciclista era cupo, a chi gli rivolgeva il saluto faceva solo un cenno col capo. Le risposte laconiche, fornite alle domande di un passante, fecero intuire al ragazzo che la bambina aveva subito un’operazione difficile ai reni, dopo che, finalmente, si era capita la causa delle continue coliche di cui soffriva. 

Stefano non aveva intuito che il pallore del volto della bambina potesse essere sintomo di una sofferenza in corso. Capì subito invece che le lacrime che scivolavano sulle guance dell’uomo e si staccavano come piccoli cristalli di ghiaccio non erano causate da congestione per il freddo. Notò anche che l’operaio invece delle scarpe invernali calzava sandali a piedi nudi. Era un voto quello. Stefano ne era certo, suo padre quando era in vita, ogni venerdì di quaresima andava scalzo per una promessa che aveva fatto anni prima, durante la guerra, se fosse tornato vivo dalla prigionia in Germania. Intuendo il senso di quel sacrificio si lasciò coinvolgere e contribuì con un suo piccolo impegno: non avrebbe infilato i guanti finché non fosse ricomparsa la bambina dagli occhi del colore del cielo. 

Per tutta la quaresima i due ciclisti pedalarono affiancati, in silenzio.

Alla ripresa delle lezioni scolastiche dopo il lunedì dell’Angelo, il ragazzo fu bloccato sul cancello della scuola dal padre della bambina che gli chiese: «Perché non porti i guanti, ho notato che hai i geloni alle mani».

Stefano, che avrebbe preferito evitare di rispondere, guardava altrove per contenere il proprio turbamento. Aveva condiviso la sofferenza dell’uomo con un gesto segreto di solidarietà ma il suo gesto era stato scoperto come il profumo irradiato di una piccola viola nascosta nell’erba. Il ragazzo con timidezza fece sentire per la prima volta la sua voce e rispose: «Per la stessa ragione che lei é scalzo» ma abbassando lo sguardo notò le scarpe e le calze dell’adulto. 

Il modo di donare vale molto più del dono. Chi non sa comprendere uno sguardo, non potrà capire lunghe spiegazioni. Quel ragazzo possedeva il dono di una vista limpida, la bontà della sua anima si rifletteva sul volto, negli occhi, nel sorriso, nel tono della voce. Gianni commosso, non si trattenne, lo abbracciò. Il dolore può bastare a se stesso, ma per apprezzare a fondo una gioia bisogna avere qualcuno con cui condividerla. La gratitudine per il gesto prezioso sarebbe rimasto un segreto tra i due.

«La mia bambina sta bene, è guarita, ora viene a scuola col l’autobus del Comune; son riuscito a convincere l’assessore ad allungare il tragitto e farlo passare davanti a casa nostra. Ora non ci incontreremo più sulla strada al mattino, anche io cambio orario, riprenderò il turno fisso dalle sei alle quattordici. Adesso che arriva la buona stagione avrò tempo nel pomeriggio per dedicare cura all’orto. Bianca sta arrivando. Se aspetti un attimo la vedi. Ecco il pulmino» . 

La piccola scesa per ultima, con sorpresa mormorò:

«Il gregario. Papà…. 

«Bianca, lui è…

«Stefano».

«Gianni».

I due scolari si guardarono fissi negli occhi per la prima volta, arrossirono, poi tutti e tre si salutarono e proseguirono nelle opposte direzioni. 

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