Questo post e dedicato a chi sta sulla porta con sguardi di dolore che affondano al suolo, sguardi di speranza che si allungano verso l’orizzonte, con occhi di rassegnazione che scoccano dardi nei cieli della sera.
Le mamme e i papà si perdono prima o dopo, è dolore che si riesce ad accettare col tempo; i figli non vorremmo mai perderli ma quando non ritornano…
Sono i figli e le figlie della brama che la vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
perché le loro anime abitano nella casa del domani,
che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro,
ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso
e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli
sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e con la Sua forza vi tende
affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola,
ama ugualmente l’arco che sta saldo.
(da Il Profeta – Khalil Gibran)
Non è solo la morte a portare via le persone.
Sulla linea d’orizzonte si muovono sagome che si allontanano sempre più.
Alcune ormai irraggiungibili.
Ed è quanto capita a tutti.
Nonni, genitori, parenti anziani; ma anche giovani, figli sottratti da incidenti o malattie, uccisi in guerre volute dai potenti, dalle violenze dei singoli e del branco.
Sono su quella linea, sbiaditi nei contorni, la loro presenza persiste silenziosa,malgrado il tergicristalli che sul parabrezza della vita continua a cancellare il pianto.
Le madri orfane dei figli sono quelle che puntano lo sguardo più lontano.
Hanno perduto pezzi di sé, hanno cercato agganci oltre il confine delle percezioni.
Ricordano gli odori delle loro camerette, indossano cappotti che li avvolsero, come se potessero trasmettere calore.
Consumano di carezze piccole cose riposte.
Tastano spazi vuoti dove soltanto loro vedono ologrammi. Hanno perso coi figli anche lo sguardo della gioia profonda, è tutto in superficie, il sorriso, la battuta ironica, il guizzo dell’intuito.
Le circonda una barriera fatta di movimenti lenti, una costante curva d’invisibile abbraccio.
Il dolore le ha scavate dentro, non hanno più motivo d’essere invincibili.
E se procedono sulla strada di sempre, lo fanno col distacco di chi dorme in treno, sapendo che non ci sono più fermate, soltanto l’ultima stazione.
L’una ha dentro rose di sangue tra frammenti aguzzi di vetro sparsi sull’asfalto.
L’altra una vasca colma mai più svuotata della forma diafana sommersa.
Ritratti che riempiono pareti, vivi, a volte scendono a sedersi nel posto riservato a tavola, specialmente di festa.
Armadi mai svuotati.
Poster che hanno perso colori e bandierine, registratori che riproducono da anni la stessa canzone.
Altari in minicase al cimitero, non mancano di fiori, quelli che gli piacevano tanto.
Marmi lustrati giorno dopo giorno da chi ogni volta, prima di andare, mormora la stessa parola: aspettami.
( da una per mille – Cristina Bove)