Entro in casa. Alessandro mio figlio primogenito tornato dal lavoro per la pausa di mezzogiorno ha mangiato qualcosa dalla nonna, è lì davanti alla televisione, con la sua bella testona rasata, mi alza gli occhi in faccia, occhi che scavano:
“E così papi, cosa hanno detto alla mamma? Dov’è ?”
Gli racconta tutto, senza nascondere niente, neanche la paura per ciò che potrà succedere.
Soltanto le persone forti sanno confidare le proprie debolezze e chiedere conforto.
Ale si alza, corre in giardino, si è sempre mostrato forte e chiuso nei sentimenti, ha una perfetta conoscenza di quanto sia veramente amato e per ascoltare la voce dell’amore basta stare in silenzio da soli. Non l’ho mai visto piangere, comprendo quanto deve essere difficile contenere il dolore internamente, non liberare lo sfogo è ancora più straziante. Lo raggiungo: “Lasciati andare non vergognarti .”
“Non voglio piangere quando tramonta il sole, le lacrime mi impedirebbero di vedere le stelle”
Quanto sono loquaci queste tre parole sparse nel silenzio del dolore.
“Tu sei forte, insieme ce la faremo. Ti lascio da solo ora. Mi preoccupa di più tuo fratello Matteo. Tra dieci minuti sarà a casa di ritorno dalla scuola, gli preparo qualcosa da mangiare e poi gli parlo. Nel frigorifero c’è qualcosa per la cena, alle cinque torno dalla mamma e sarò a casa stasera, dopo le nove. Spero di potervi dare notizie più chiare e rassicuranti, mi raccomando fai il bravo.”
Ho vissuto tutti i giorni di questo figlio, gli sono stato accanto per tutti gli anni della scuola fino alla maturità dello scientifico -Era come se tu fossi stato nel banco con me tutti questi anni papà-. A volte penso che quell’attaccamento, quasi un accanimento scolastico sia stato la causa dell’ addio di Alessandro ai libri -niente più scuola, professori niente università, vado a lavorare!- aveva detto dopo la maturità.
“A stasera papi . Torno al lavoro. Porta un bacio alla mamma per me. Dille che domani io e Matteo saremo là, accanto a lei” .
La barba del figlio punge nel bacio, è un uomo ormai.
Il cancellino sbatte. Passo lungo, Mongomery blu di panno col cappuccio sulle spalle, sciarpa da fedajn attorno al collo, capelli lunghi nell’aria frizzantina di marzo, arriva Matteo:
“ Cosa c’è da mangiare oggi ? ” La sua classica frase, da sempre al ritorno da scuola. Ha diciotto anni; in giugno affronterà la maturità dello scientifico.
Ho gli occhi arrossati, inutilmente mi sono lavato la faccia per nascondere ciò che sto passando. Matteo ha già capito tutto, c’è qualcosa di grave per la mamma, si butta tra le mie braccia :
“Stringimi forte, stringimi! Voglio andare dalla mamma. La devo vedere. Quando mi porti da lei”.
Con calma gli spiego tutto mentre cerco di fargli mangiare qualcosa, poi per un mese saprò preparare per loro solo pane, prosciutto e macedonia. Quanta macedonia!
Sbuccio le banane e le affetto, faccio lo stesso con le fragole dopo averle lavate sotto l’acqua corrente del lavandino, poi tocca ai kiwi, qualche cucchiaiata di zucchero, una spruzzata di limone, mescolo un paio di volte col cucchiaio le fettine bianche, rosse e verdi e la macedonia è pronta.
Sono le cinque di sera, sono già’ in ospedale, non ho mangiato niente, non ho dormito nel pomeriggio, è stato tutto un giro di telefonate. Le cognate, i parenti, gli amici, un tam-tam, tutti vogliono sapere quello che ancora non si sa esattamente, sarà così anche domani e gli altri giorni a venire. Il telefono è rovente.
Per accedere al reparto isolamento ci si deve vestire con un grembiulone verde, la mascherina sulla bocca, la cuffietta in testa, i soprascarpe, tutto in carta verde chiaro da buttare nel cestino dopo l’uso; con me negli spogliatoi poche altre persone, anche loro in visita agli “isolati”.
Quando siamo pronti suoniamo il campanello, una infermiera apre, ci controlla con lo sguardo se siamo ben coperti poiché potremmo portare batteri dall’esterno aggravando con infezioni la situazione medica già precaria di questi i malati, le loro difese immunitarie sono minime.
Per sdrammatizzare la situazione, fuori dalla porta intono una vecchia canzone che ripeterò per tutto il mese nelle mie visite :
“ E’ arrivato l’ambasciatore, con la piuma sul cappello, è arrivato l’ambasciatore a cavallo di un cammello…”
Una flebile voce dall’interno risponde:
“Ha portato la letterina, c’era scritto sai così…”
la porta si apre e insieme nell’abbraccio terminiamo il ritornello :
“ Se mi ami, mi, mi, ti darò tutto il cuor, è arrivato l’ambasciatore!”
Sorride: “ Come stai? Hai mangiato? Hai parlato coi ragazzi? Come…”
“Prima di tutto come stai tu? Sei tu la malata! Per il resto tutto a posto, i ragazzi sono tranquilli, è inutile dire che gli manchi e che sono preoccupati, domani saranno qui tutti e due e se ti vedono bene come io ora saranno più sereni”.
Le guance sono due pomelle rosa :
“ Mi hanno dato una sacca di sangue, una trasfusione, mi sento molto meglio, è come se mi avessero ricaricato le batterie .” Ha ancora una flebo attaccata.
L’amore e la malattia hanno in comune quello stato d’animo per cui si rinuncia a voler apparire ciò che non si è, quindi è inutile persistere nella finzione che non sia fondata sulla pura realtà.
“ Sono sempre stata forte in tutte le vicissitudini della mia vita, ma ti confesso, ho paura. Mi stanno preparando per una cura chemioterapica, comincerò domani o tra due giorni, non ho capito bene. Dopo, passa in biblioteca ti aspetta un giovane medico, le infermiere lo mangiano con gli occhi, è proprio un bel ragazzo, mi sembra di aver capito che si chiami Massimiliano, lui ti spiegherà la mia malattia e la cura. Non so se ho capito tutto o se non hanno voluto dirmi tutto, ero un po’ addormentata, stanca, prima di questa bomba nelle vene. Secondo me il sangue che mi hanno dato era quello di un lottatore .”
“Chemioterapia? ”
“ Sì, Sì, hai capito bene, questa parola fa paura anche a me, ho pensato subito alle persone sottoposte a questo trattamento, come sono state male, il cranio pelato…la maggior parte di loro non ce l’ha fatta. Se io muoio, con i ragazzi fai quello che facevo io e continuerò a vivere con te, insieme abbiamo messo le nostre radici in loro”
“Non pensarlo neanche per scherzo, tu ce la farai, ce la faremo insieme, insieme abbiamo messo le nostre radici in loro, insieme continueremo a trasmettere ad Alessandro e Matteo la nostra linfa, sei forte, ho molta speranza, sono sicuro, tu non molli, coi globuli rinnovati come quelli del lottatore di sumo butterai fuori dal tappeto il male e vincerai. Le tue amiche ti chiamano “Spi “ sei piccola ma tenace come una spina, farai scoppiare la leucemia come un pallone gonfiato e tornerai a casa più forte di prima. ”
Non hai coraggio se non hai paura. Il coraggio è una contraddizione, esso implica un forte desiderio di vivere che prende forma nell’ essere pronti a morire. Il coraggio non le manca, ma deve lottare per farsi vedere forte da me.
“ Quando uscirò di qui, promettimi una cosa: continueremo a cantare insieme la gioia di vivere, ogni momento bello o brutto, qualunque sarà la mia o la tua condizione.
Mi dispiace un po’ per i capelli, le ragazze qui, tra l’altro gentilissime, hanno detto che facilmente cadranno, sarebbe meglio accorciarli, magari sabato porta il rasoio elettrico col quale vi rasate tu e Ale”.
Le rispondo al volo scherzando: “Avrò il tuo scalpo maledetto viso pallido”.
La malata è serena, parliamo un po’ di tutto :
“Avrei dovuto accorgermene, le macchie scure comparse sulle gambe non erano lividi causati dalle botte prese nei lavori domestici, erano un segno della malattia. A saperlo…!
Adesso è meglio se vai a parlare con il dottore, fatti dire tutto, non c’è bisogno che mi riferisci del colloquio, tanto io sono qua e vedrò in diretta come andranno le cose. Domani non venire riposa, ne hai bisogno quanto me, sei pallidissimo! Fai venire le mie sorelle nel pomeriggio, ho bisogno di parlare con loro. Domani sera sarei felice di vedere i ragazzi! Mi sembra una vita che non li vedo. Sento di averli trascurati in questo periodo di estrema stanchezza”.
“Non hai trascurato proprio nessuno, sei un po’ una rompiscatole, ma hai una generosità…”
Mi sto commuovendo, ma mi trattengo e lascio sospesa la frase. Ci diamo un bacio attraverso la mascherina di carta : “ Ci vediamo tra due giorni, riposati. Ah! Dimenticavo, cerca una donna per la casa, non vorrei trovare il caos quando torno”.
Certo! L’ordine e la pulizia vanno al primo posto, neanche la malattia è così importante per lei. Le mando un ultimo saluto da dietro il finestrino sulla porta, un velo triste annacqua i meravigliosi occhi azzurri di Neli.