A un amico nel silenzio
Grande fermento nell’ultima classe della scuola materna: la recita del Natale come ogni anno toccava ai “grandi”. I ruoli di Giuseppe, Maria, i pastori, gli angioletti, erano stati assegnati; mancava l’oste, quello che avrebbe dovuto negare l’alloggio ai futuri genitori del Bambino Gesù.
La maestra aveva puntato gli occhi su Paolo, l’osso duro dai capelli all’umberta, pettinati all’indietro con le dita delle mani bagnate d’acqua a sostituire la brillantina; ogni tanto qualcuno per fargli dispetto gli diceva – te li sei fatti leccare dalla mucca?-.
Il biondino determinato e testardo faceva solo ciò che gli andava di fare e lo aveva dimostrato fin dal primo giorno nel refettorio ignorando il pranzo; braccia conserte e bocca ermeticamente chiusa si rifiutò di mangiare finché cedettero alla sua richiesta: latte caldo e pane raffermo.
Il latte lo portava lui ogni giorno, appena munto. Dopo colazione, il piccoletto attraversava il cortile di corsa fino alla stalla di Luigì e Velina, si faceva riempire il pentolino di alluminio, lo richiudeva col coperchio dello stesso metallo e s’incamminava da solo sulla strada sterrata, fino all’Asilo Infantile. All’ora del pranzo accumulava i pezzetti di pane sbocconcellando due mantovane rafferme, li immergeva nel latte bollente della grande scodella realizzando un pastone color biscotto, talmente denso che il cucchiaio piantato nel mezzo stava in verticale come il palo della cuccagna. Nessuno doveva disturbarlo fino alla fine del pasto, quando, a braccia ciondoloni, si abbandonava allo schienale della sedia, in attesa dell’immancabile ruttino.
Il bambino dalle pagliuzze dorate nei capelli, dopo tanta insistenza aveva ceduto alla richiesta della maestra, ma non voleva saperne di rivolgere la frase –Non c’è posto per voi – a Giuseppe e Maria quando avrebbero bussato alla sua postazione dietro la porta montata sui cardini nell’apertura ritagliata in un pannello di compensato.
L’alloggio dell’oste, la capanna, le case, le montagne erano disegnati su carta da pacchi incollata con un impasto di farina e acqua sui pannelli incernierati a formare un lungo paravento che si reggeva in equilibrio precario. Sullo sfondo il cielo di carta blu – la stessa che si usava per ricoprire i libri scolastici incorniciava lo scenario della Notte Santa. Nella Betlemme dei bambini il cielo scende sulla terra, tempestato di stelle ritagliate in carta stagnola.
– Devi dire solamente quelle tre parole. Coraggio non farti pregare.
– Ho vergogna , mi guardano tutti e se poi sbaglio? E se…– trovava sempre mille scuse, tanto è vero che dopo tanta riluttanza, la frase alla fine la urlavano all’unisono i suoi compagni di classe.
Il blocco emotivo aumentò un paio di settimane prima della recita, quando nell’uscire dalla stalla con la sua razione giornaliera si scontrò col Barbone: un vagabondo, che da qualche giorno aveva trovato riparo per la la notte nel fienile della cascina e ripagava l’ospitalità con lavori di mungitura, e rigoverno della stalla.
Un sorriso aperto nel pertugio tra baffi e barba e due occhi buoni sul viso nero come la notte bastarono a creare l’intesa tra i due.
Ogni sera dopo il vespro, il piccolo, col permesso della zia che lo aveva in custodia, raggiungeva la stalla per ascoltare incantato le storie di quell’uomo.
Barbone, chiamato così, dalla gente del paese dove tutti avevano un soprannome, per via della barba e della sua vita da senzatetto, prima di raggiungere il suo giaciglio nel fienile, puntando il dito verso est nel cielo di dicembre tracciava i cateti che collegavano i tre vertici del triangolo d’inverno per mostrare Betelgeuse, Sirio e Procione a Paolo e al vecchio Luigì. Proprio per la conoscenza delle stelle e delle storie dei popoli, il padrone della stalla, gli aveva appioppato il nome -Re magio- come Gaspare Melchiorre e Baldassarre, i sapienti guidati dalla cometa fino alla grotta del Re dei Re.
Una sera Paolo dopo aver raccontato al vagabondo la storia del Bambino di Betlemme, la stessa della rappresentazione natalizia, gli confidò il motivo principale della sua non voglia di salire sul palcoscenico:
– Sarò da solo. Il mio papà e la mamma lavorano lontano da casa e non ci saranno la sera del saggio di Natale.
–A me piacerebbe vedere la vostra recita, se può esserti di conforto sarò in fondo, vicino alla porta, al buio, così la mia presenza non disturberà nessuno.
Sì, per lui lo avrebbe fatto, per lui soltanto, per Barbone. Non poteva rifiutare ora che sapeva che quel soprannome non definiva solo l’aspetto esteriore. Quando aveva chiesto alla zia come mai quell’uomo dormisse sul fienile e non in un letto come tutti, la risposta fu:
–Perché nessuno gli dà ospitalità.
–Ma perché ?.
–Perché è povero, sporco, vestito di stracci come tutti i barboni.
Non erano scuse buone. Lui lo avrebbe fatto dormire in casa il suo amico, magari accanto al fuoco del camino, anche senza fiamme, sarebbe bastata una coperta, sempre meglio della nicchia nel fieno. Certo, dormire con un cielo color inchiostro per tetto, almeno una volta sarebbe piaciuto anche a lui. Sarebbe stato bello sentirsi straniero tra un muggito di un vitello, il cigolio delle catene che legano le mucche alla greppia, o il grido di un uccello notturno.
Non sapeva niente Paolo di chi va in giro senza conoscere la lingua del posto, con fantasmi e tasche vuote per compagni di viaggio; non sapeva ancora Paolo cosa significasse percorrere i giorni sotto i cieli del mondo con un viso nero come la notte.
La sera del debutto, il salone del teatro era gremito di genitori e parenti, con la loro scorta di caramelle e frutta secca, da lanciare sul palco alla fine della rappresentazione come premio ai piccoli attori.
Al suono del campanello calò il silenzio. L’atmosfera creata dalle luci basse e dallo scenario contribuì a immergere protagonisti e spettatori nella magia dell’evento.
Mentre i genitori del Messia interpretavano il copione recitando la loro parte imparata a menadito, Paolo, spiando dall’interno della sua casetta, cercava di rintracciare una presenza nel buio della sala. Col cuore che tambureggiava a un ritmo crescente ripeteva la sua parte, amareggiato dal pensiero che forse il suo amico gli aveva mentito o forse era partito per una nuova destinazione. La voglia di mettere fine a quell’attesa aveva aumentato la sua tensione e prima ancora che le nocche di san Giuseppe toccassero la sua porta, la spalancò urlando a tutta voce– Non c’è posto per voi– e richiudendola violentemente la scardinò facendo crollare il lungo paravento.
L’Oooh del pubblico lo impietrì. Una statua di sale tra i resti di una Betlemme di cartone e compensato, sotto un cielo blu tempestato di stelle. Occhi sbarrati. Imbarazzatissimo padrone della scena.
Una voce tra il pubblico –Oh la peppa, il biondino ha provocato il terremoto –.
Una risata, un’altra, infine l’ilarità generale fece scattare la pioggia di caramelle, noci e nocciole sul palco. Le lacrime cristallizzate sul bordo degli occhi del piccolo bevitore di latte trovarono la strada sulle guance. Sotto il velo liquido vide avanzare dal fondo della sala la figura ondeggiante del suo amico avvolto nel tabarro scuro. Mano a mano che Barbone procedeva, le bocche degli spettatori ammutolivano; davanti al boccascena aprì le braccia come una croce.
Il bambino senza esitare spiccò il suo volo dal palco e aggrappato al collo del suo salvatore, sparì nel silenzio del mantello.
Non nevicò quell’anno, nessuna orma bianca a segnare la strada di chi va via senza salutare.
La perdita di un amico è una finestra aperta nel cuore, da essa si può vedere il vuoto, da essa si può sentire il soffio del vento.
Qualche anno dopo nevicò a dicembre ma il manto di neve rimase immacolato dalla cascina alla stalla. I due contadini erano diventati anziani, non c’erano più le mucche; il latte lo consegnava il lattaio, in bottiglie di vetro con tappo sigillato in alluminio. Non c’era più fieno, nessun giaciglio per dormire nel fienile. Barbone non era più tornato.
Il maestro di quinta elementare, su richiesta del direttore didattico, che insisteva sull’impegno artistico degli alunni per sviluppare relazioni sociali attraverso la finzione della dimensione teatrale, aveva scelto di inscenare per Natale una poesia di Guido Gozzano.
Nella “Notte Santa”, a partire dal rintocco delle sei di sera, la richiesta di alloggio di Giuseppe e Maria, viene respinta dagli albergatori di Betlemme, a ogni scoccare di ora.
A Paolo era stata assegnata la parte dell’ Oste di Cesarea; l’ultimo rifiuto prima del tocco delle undici toccava a lui. Avanzò varie scuse per schivare quella recita, soprattutto perché avrebbe dovuto, come cinque anni prima, aprire e chiudere la porta in faccia a “quei due senzatetto” e la cosa gli bruciava perché gli ricordava il suo amico scomparso nel nulla.
Non era più tornato in quel teatro Paolo; gli sembrava meno grande; lo scenario, dipinto su quinte ruotanti attorno a un perno come pagine di un libro, presentava di volta in volta le porte dei cinque alberghi: Caval Grigio, Moro, Cervo Bianco, Tre merli e Cesarea e infine la grotta con tanto di bue e asinello dipinti sulla scena.
L’aveva imparata bene la sua parte, sapeva anche quella degli altri osti , di Giuseppe, di Maria, del campanile e quella lunga dell’angelo che annunciava la nascita dei Gesù bambino. Una bella poesia.
Era tranquillo, non c’era più emozione, nessun tambureggiamento nel cuore. Dietro la porta seguiva il prosieguo della poesia e aspettando la sua parte sbirciava per scorgere la postazione dei suoi genitori, presenti in sala ora che il lavoro l’avevano trovato vicino a casa.
La porta sul fondo era spalancata per lasciar passare un po’ d’aria: la stufa a carbone e l’affollamento avevano surriscaldato l’ambiente.
Il ragazzo improvvisamente immaginò l’arrivo del vagabondo; ricordava le sembianze ma faticava a tratteggiarle sul riquadro nero aperto nella notte invernale.
Il campanile scocca lentamente le dieci
Era il suo turno, doveva concentrarsi – un bel respiro e voce alta– aveva raccomandato l’insegnate durante le prove.
– Oste di Cesarea…
– Un vecchio falegname? Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame non amo la miscela dell’alta e bassa gente.
Ecco, bene, non aveva sbagliato niente, aveva richiuso la porta senza far crollare le quinte, lasciando fuori quei due al freddo senza un riparo per dormire.
–Basta! Smettiamola una buona volta– si girò di scatto riaprì la porta riapparendo in scena; lo sguardo fisso verso il fondo della sala.
–Ssst ssst– il maestro faceva segno di rientrare nel suo alloggio, ma Paolo determinato più che mai si avvicinò a Giuseppe, gli afferrò la mano e appoggiando l’altra sulla spalla di Maria li introdusse nella sua dimora. La dimora del tempo sospeso.
Nel silenzio della sala, ad alta voce proclamò un versetto dell’Apocalisse imparato a memoria e conservato a lungo nel suo cuore:
“Ecco , io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui, ed egli con me”
In fondo alla sala scintillò una luce e poi fu notte nel cielo di Natale.