Ho scritto questo racconto più di un anno fa , poi l’ho lasciato riposare e quest’anno dopo averlo ripreso l’ho inviato al concorso “La vita di un senza dimora” e La casa di cartone e Sul Romanzo hanno deciso che era il vincitore (per onestà devo dire che da quello che ho capito non hanno partecipato in tanti). Io comunque la mia soddisfazione me la sono presa e domani 17 Ottobre 2012 alle ore 21.30 sarà letto in piazza dell’Immacolata a Roma durante la manifestazione della Notte dei senza dimora.
Condivido la mia gioia con Cristina Bove vincitrice per la sezione poesie con la splendida”Senza fissa dimora” .
Il mio nome é Habib, stanotte ho dormito su un vecchio materasso adagiato su pallets di legno di pino in un casolare abbandonato tra i vigneti di queste colline lombarde.
I topi hanno mangiato l’ultimo pane rimasto nella bisaccia, pensieri e spasmi allo stomaco hanno distrutto il silenzio nel buio .
Le raffiche di vento contro la porta risuonano nei miei orecchi come la burrasca che sferzava il nostro barcone nella traversata del mare di Sicilia una decina di anni fa.
Un cane abbaia alla luce del giorno in ritardo. Cammino sulla carreggiata erbosa e mi chiedo ad ogni respiro se c’è qualcuno che sa, se c’è qualcuno che se ne preoccupa, le mie tasche vuote dicono che non ho amici e questo mi martella il cervello e la pancia. Ho cercato lavoro e denaro camminando per miglia, così affamato da non saper mostrare un sorriso. Ho speso il mio ultimo euro per cinque pani che non ci sono più. Gli occhi si perdono in lontananza su questa terra che non mi appartiene, niente mi appartiene qui, non ho un fazzoletto, un pezzo di carta, mi sfrego il naso gocciolante con la mano. Come un cane infreddolito ululo il mio nome, ma non conta niente, e la mia età ancora meno. Il mio paese si affaccia sul Mediterraneo, lì mi hanno insegnato ad obbedire alle leggi e che Dio é con noi. La ragione per continuare a vivere non l’ho mai capita ma ho imparato ad accettarla con orgoglio perché non conti i morti quando hai Dio dalla tua parte.- – Il vostro Dio non è il nostro- dicono qui, e ci trattano come furono trattati gli ebrei; siamo noi da combattere, odiare, temere, cacciare, noi a correre, nasconderci, noi a dover accettare tutto coraggiosamente. Non devi mai fare domande quando Dio è con te. Sono nato sul confine nord della Tunisia; mia madre si ammalò quando ero ancora bambino; sono stato cresciuto da mio fratello, fino a quando un giorno non tornò a casa, come mio padre prima di lui. Mi aspettava un lungo inverno di fame, potevo vederlo dalla finestra della mia bocca; i miei amici non avrebbero potuto essere più gentili ma stavano peggio di me. Attraversammo il mare in primavera, quando le tristi silenziose canzoni facevano raddoppiare il tempo, in attesa che il sole tramontasse. Ho perso la mia dignità per un qualsiasi straccio di lavoro percorrendo questa terra italiana da sud a nord, consumando i miei sandali, stivato come un animale sui carri-bestiame. Ho raccolto arance, pomodori, limoni, munto pecore e capre, pulito stalle e vetri delle macchine, venduto tappeti, collane e ciondoli sulle spiagge. Qui dove le fabbriche sono porta a porta, grazie all’aiuto di un amico trovai un lavoro e iniziai a vivere col sole alla finestra mentre gli anni passavano bene con il piatto della mensa sempre pieno. Poi il lavoro diminuì senza ragione ad un turno di mezza giornata; diminuì ancora e la temperatura dell’aria congelò quando un uomo venne a dire che nel giro di una settimana la fonderia numero tre sarebbe stata chiusa perché non rendeva abbastanza – è più economico nelle città dell’Est- lì, gli operai lavorano quasi per niente. Nel dormitorio che puzzava di alcol ognuno parlava tra sé e sé mentre il silenzio andava aumentando, finché svegliatomi una mattina compresi che il buon tempo era finito, il suolo si stava raffreddando attorno a me. -C’é la crisi e voi ci portate via il lavoro- leggevo sulle facce degli uomini fuori dai bar. I vecchi sulle panchine del parco dicevano che l’intera città si stava svuotando di quelli come noi, non c’era più niente qui che mi potesse trattenere . Ho pregato il Signore lassù di mandarmi un aiuto. Mi ha mandato Moses, il muratore. Ha detto che se voglio lavorare mi devo svegliare presto perché ci vogliono due ore per arrivare sul cantiere; le quattro corsie dell’autostrada non bastano a smaltire il traffico in entrata a Milano. Al luogo stabilito, il mio sguardo incomincia a sfocare non appena giro la testa verso il punto dove il mio amico ed io ci dobbiamo incontrare, fisso la strada, il marciapiede ed il segnale stradale. Non verrà?. Che ore sono?. Un inquieto ed affamato presentimento che non dice niente di buono, il pulmino dei manovali è già passato, mi sono svegliato maledettamente in ritardo. Forse no! Non faccio a tempo a vedere la mia ombra proiettata sulla strada dalla luce dei fanali della vettura sopraggiunta all’improvviso dietro di me. Uno schianto. Inghiotto l’urlo di dolore. Sto volando nell’aria di questo mattino di settembre. Non sento più le gambe, il cervello sta sanguinando, i miei occhi fissano un cielo color porpora.
Sto navigando verso il mio unico vero amore.