Guida da cani come me!

  

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Massimiliano non parla, non ci riesce, ha visto la com-mozione di Stefano, appoggia la chitarra sulla sedia, al-lunga la mano, prende il diario lo apre, punta il dito ver-so la personcina sull’erba: «Quel bambino sono io, ti ho aspettato tutta la vita, e anche da quando ho saputo la verità ho atteso il momento di abbracciare il mio papà sperduto nei cieli. Ora sei qui davanti a me e vorrei…».

L’uomo tornato dallo spazio, si lancia tra le sue braccia per stringere ed essere stretto dal figlio ritrovato.

Sono passati tanti anni dal primo incontro con sua ma-dre ma non è cambiata l’irruenza delle sue domande, la corsa nella sua voglia di sapere:

«Da quanto tempo conosci la mia identità, come hai sco-perto chi ero, dove e come vivevo? ho la sensazione di a-verti incontrato più di una volta nell’arco della vita, sempre nei momenti difficili per darmi una mano per togliermi dai guai. Il dottor Massimiliano che si è dedi- cato con cura per guarire mia moglie è lo stesso Max che ha salvato i miei figli, Daniele dalle onde del mare e Mario dall’acqua della piscina. Come è possibile una combinazione simile? C’è un disegno particolare che faccio fatica a comprendere nel nostro destino». «Papà. Non è facile pronunciare questa parola anche se lo desideravo da tempo. Facciamo due passi all’aperto, è ancora una bella giornata, portami su al Castello, tu e la mamma non ci siete mai andati insieme. Prendi il diario, continuerai a casa la lettura, basta emozioni per oggi, un po’ di informazioni te le posso dare io. Chiudiamo lo studio, è mio adesso, anzi è nostro, ho fatto fare il dop-pione delle chiavi ».

Dietro a quella porta sono conservati i ricordi; per Max sentirseli raccontare ha un significato per rileggere la parte della storia che non conosce.

Si incamminano verso il Cidneo, la collina sulla quale troneggia il Castello. Seduti su una panchina davanti al panorama della citta Max fa il suo resoconto per soddis-fare le domande del padre:

Quando sono diventato più grande, ai tempi della pre-adolescenza ho cominciato a dubitare della versione del-la mamma sul tuo conto. Non c’era nessuna fotografia, lettera, indirizzo, nessuno a cui chiedere informazioni; non c’era una missione segreta, nessun giornale parlava di un astronauta italiano sperduto nello spazio. Avevo capito che la mamma mi nascondeva qualcosa, era molto evasiva sull’argomento, cominciammo a scontrarci; di fronte al suo muro di silenzio ho pensato di tutto anche le cose peggiori. Lei ripeteva che ero troppo piccolo per comprendere ma che un giorno avrei conosciuto la veri-tà. Finchè, l’ho messa alle strette. A diciassette anni sono scappato di casa. Un sabato mattina ho preso il treno e sono andato dallo zio, il generale. Il mio padrino mi ha sempre amato, ci è stato molto vicino, ci ha aiutati nono-stante l’esercito lo tenesse parecchi chilometri lontano dalla nostra casa. Appena sono comparso alla sua porta ha chiamato la mamma per tranquillizzarla e informarla che sarei stato con lui un paio di giorni. Le ha fatto pro-mettere di dirmi la verità, era il tempo giusto quello, sta-vo diventando grande, sarei stati in grado di affrontare ed accettare la realtà, lo zio ha sempre avuto molta sti-ma e fiducia in me.

Così quando sono tornato a casa ho conosciuto la vostra storia segreta, ora la conoscevamo in quattro, noi tre e lo zio. Da subito ho espresso il desiderio di incontrarti, vo-levo il tuo indirizzo, lei me lo ha negato sostenendo che avrei potuto distruggere o causare complicazioni a te e alla tua famiglia. Questo lo capìi subito ma era tanta la curiosità, il desiderio di vederti. Sfruttando a insaputa della mamma l’artificio Pico fermoposta, con una scusa ti ho chiesto per lettera dove passavi le vacanze quell’an-no e, conosciuta la destinazione ed il periodo, mi sono recato sulla Riviera romagnola, ho contattato il proprie-tario dell’Hotel e grazie alla raccomandazione dello zio

mi sono fatto assumere come cameriere per tutta la sta-gione estiva. La mamma era all’oscuro della vera ragione per cui volevo lavorare, suo fratello l’ha convinta dicen-do che era giusto farmi provare a guadagnare i soldi per la motocicletta che da tempo sognavo.

Vi ho visti, conosciuti, ho passato la vacanza accanto a voi, facevo di tutto per starvi vicino, è stato facile farmi assegnare dal caposala il vostro tavolo per servirvi. Quando ho ripescato dalla piscina il piccolo Mario, non so spiegare la gioia di tenerlo tra le braccia; il mio fratel-lino mi accarezzava dicendo una parola…

Stefano rompe il silenzio: «Morbido».

«Si, allungando la o diceva “mooorbidoo”. A settembre quando sono tornato a casa ho raccontato la mia espe-rienza alla mamma. Si è un po’ arrabbiata, le avevo pro-messo che non avrei interferito con la vostra vita, ma quando l’ho rassicurata di non aver palesato la mia iden-tità si è tranquillizzata ed ha voluto sapere tutto su di te e della tua famiglia.

Nel ’93 a Cala Mesquida nell’isola di Maiorca è stato il destino a farci incontrare, non ce l’avreste fatta da soli a salvarvi dalle onde. Quando siamo arrivati sulla spiaggia temevo avresti riconosciuto in me il cameriere della Ro-magna per questo mi sono defilato alla svelta facendo finta di niente. Mariolino mi aveva riconosciuto, non a-vrei saputo dare una spiegazione per quella coincidenza di incontri-salvataggi, sono scappato via, ma arrivato alla mia Jeep ho vomitato; il pensiero che avrei potuto per-dere te e Daniele mi aveva causato un forte dolore allo stomaco. In quel momento avrei voluto chiamarti in disparte, restare solo con te e rivelarti la mia identità, ho resistito, ho mantenuto la promessa alla mamma: lasciar passare ancora qualche anno, c’era un disegno per tutto, non dovevo avere fretta e aspettare che i tuoi figli diven-tassero adulti. Lei mi diceva:« È proprio dei giovani il volere tutto subito. Se vuoi costruire la casa della felici-tà, ricorda che la stanza più grande deve essere la sala d’attesa perchè un giorno anche per te arriverà il treno della gioia».Ho resistito anche perchè non eri più lo sco-nosciuto astronauta sperduto nello spazio ma un aqui-lone che volava lontano nel cielo ed io avevo in mano il filo della tua assenza, un giorno avrei potuto tirarlo per arrivare a riprenderti.

Gli anni sono passati in fretta, il tempo vola per tutti, l’infarto e la morte dello zio, la malattia della mamma, l’impegno alla facoltà di medicina, una delusione amo-rosa, mi hanno coinvolto totalmente.

Il giorno della laurea non c’era nessuno a farmi le con-gratulazioni, la mamma stava male in quel periodo, avrei voluto ci fossi tu a condividere la mia gioia. Ho un ricor-do triste di quel momento, ho sentito forte il peso della solitudine, ma ho fatto finta di niente con la mamma, era troppo orgogliosa di me, del mio risultato, del premio al mio impegno.

In seguito mi sono specializzato in ematologia e nel 2003 ci siamo incontrati di nuovo a Bergamo per la malattia di tua moglie. Mi piace Neli.Hai scelto proprio bene, è una cara persona, molto fine. Una madre la cui preoccupa-zione primaria non era la salute ma la famiglia, i due figli. Non si può misurare l’amore di una madre.

La mamma, Renata, non mi ha fatto mancare niente, ha fatto di tutto perché un giorno tu fossi orgoglioso di me e di come mi aveva cresciuto. Spero di non deluderti. Forse sto correndo troppo. Ti sto creando dei problemi, non eri preparato per una sorpresa simile ti capisco.

Pensavi di incontrarla lei e hai trovato me.

Le condizioni di salute della mamma erano precarie, an-che lei soffriva di cuore come lo zio, la cura rallentava la malattia ma era chiaro che non sarebbe andata avanti ancora per tanti anni. La trovavo spesso intenta a guar-dare gli schizzi dove aveva catturato e fissato il suo Icaro, voleva realizzare il quadro per il quale ti aveva ingaggia-to. La tela stava sul cavalletto, ma non me la lasciava guardare, la copriva dicendo: «Prima di andarmene per sempre voglio lasciargli il mio regalo. Sarà una sorpresa per te e per lui».

A maggio dell’anno scorso ha avuto un infarto, capiva di essere arrivata alla fine dei suoi giorni, avrei voluto chia-marti, realizzare il desiderio di incontrarci per stare in-sieme per una volta noi tre, la sua famiglia, ma sapevo che non era d’accordo e non l’ho fatto.

Una delle ultime sere, nella casa sulle colline bolognesi, mi chiese di stare accanto a lei sul divano, volle che mi posizionassi con la testa sulle sue ginocchia come quan-do da piccolo mi addormentavo raccontandole la crona-ca delle mie giornate mentre lei infilava le dita tra le mie ciocche per sciogliere i nodi dei capelli. Mi disse che ogni volta diventavo sempre più pesante da portare nel lettino, così mi copriva con il plaid zzurro e giallo e mi lasciavo dormire sul divano.

Non l’ho mai abbandonata la mia copertina.

Continuò dicendo che sentiva che i suoi giorni stavano scemando, non volle lasciare il divano, mi chiese di co-prirla con il mio mantello azzurro e giallo e mi fece pro-mettere di lasciar passare un anno dalla sua morte pri-ma di contattarti. Mi mostrò il diario che avrei dovuto consegnarti, facendomi promettere di rispettare ogni tua decisione, ricordo ancora le sue parole: “Ha una famiglia da trent’anni oramai, chissà come è cambiato, se è rima-sto nel suo cuore un frammento del nostro incontro; di questa storia impressa nella mia carne e origine della tua vita”.

Ha parlato solo di te nei suoi ultimi giorni. Un mattino l’ho trovata addormentata per sempre, sul plaid c’era la lettera che hai letto, scritta la notte prima di morire».

La sera è calata sulla città, i due camminano vicini.

«Ti accompagno alla macchina, poi prendo il treno e tor-no a Bologna».

«Quando ci vediamo Massimiliano. Posso chiamarti Max?»

«Chiamami come ti piace, ho aspettato tanto questo mo-mento, io non riesco a chiamarti papà, ti chiamo Stefa-no, ti dispiace?».

«No, è normale questo, non preoccuparti, ora ce l’hai un padre anche se per ora lo chiami Stefano. Quando sarò a casa riferirò a mia moglie del nostro incontro, lei cono-sce la mia storia con tua mamma; non dico niente ai ra-gazzi, vorrei fossi tu a comunicarglielo, mi sembra una buona idea, sono grandi e capiranno, sei d’accordo?».

«Non so, parlane prima con tua moglie, poi vedremo, io aspetto e accetto ogni vostra decisione, mi sembra giu-sto, e oltretutto l’ho promesso alla mamma».

«Sei proprio un figlio giudizioso».

Si scambiano i numeri di telefono, il figlio ha il cellulare il padre non lo usa, dice che non fa parte della sua vita, non vuole essere alle dipendenze della tecnologia, ma sa benissimo che al giorno d’oggi non se ne può fare a me-no, i suoi due figli ne hanno già cambiati cinque o sei.

Nel lungo abbraccio il calore dell’appartenenza passa da un corpo all’altro. «Stefano, hai dimenticato il tuo regalo allo studio, sape-vo che suonavi e ho scelto una chitarra, anch’io mi dilet-to sulla dodici corde, hai le chiavi dello studio, puoi an-dare a prenderla quando vuoi. Arrivederci a presto».

«Ti chiamerò Max, voglio recuperare il tempo perduto nello spazio». Il padre ingrana la prima marcia, esce dal parcheggio senza guardare nello specchietto retrovisore, per fortuna non passa nessuno, si immette sulla corsia senza azionare la leva della freccia.

Il figlio lo segue con lo sguardo: «Accendi i fari papà, è buio. Guida da cani come me».

10 pensieri su “Guida da cani come me!

  1. Oh Fausto mi si è sciolto il cuore!!!
    Questo racconto è stracolmo d'amore … Renata è stata perfetta ed ha allevato un figlio perfetto che ha capito, ha atteso e finalmente si è ricongiunto col padre dello spazio: Stefano (un'altra persona squisita).
    Bellissima storia, con scene inaspettate…
    Sei grande… complimenti !!!!!!!!!!!!!
    Buona domenica, carissimo!!
    Cristiana

  2. E' davvero bellissimo! Si avverte quell'intimità che, loro malgrado, s'insinua tra ogni parola o gesto. La figura materna, il migliore collante.

    Molto molto piaciuto. Buon Fine Settimana, un caro saluto, rossella

  3. ehm caro falco, il tuo racconto procura emozioni intense, possiedi nella scrittura il segreto di catturare l'attenzione fino alla fine.
    ci sono passaggi che commuovono…
    grazie, per non avere riserve nel raccontare di sentimenti, se ne è perso il senso, ormai, e ritrovrarli è come ritrovare una dimensione più delicata di noi stessi.
    ciao

  4. grazie per questo racconto
    un amore profondo che sembra non aver perso mai un giorno…portato in silenzio e rispettato da entrambi…
    un abbraccio

  5. Quando l'amore riesce a superare le barriere dell'egoismo…allora è possibile l'attesa…tempo e spazio perdono di mordente solo il bene dell'altro importa è questo il vero amore. Renata è stata grande come donna e come madre,
    Il racconto è ben scritto e coinvolgente, ma questo già lo sai, e commuove oltre ogni dire.
    Grazie

    frantzisca

  6. Dunque…  ti rendi conto di quanto sia quasi incredibile che io stamani, non so dirti per quale motivo abbia deciso di eggere il racconto che da tempo mi aspettava?
    Ti chiederai perchè ha dell'incredibile… Beh, perchè mi rendo conto solo adesso che il racconto è finito e che tu lo hai postato venerdì. Come se io avessi aspettato che arrivassi al punto finale per leggerlo… ma non lo sapevo! Oltretutto vedendo titoli diversi non immaginavo che fosse il seguito.

    Insomma sono stupefatta!

    Mi è piaciuto?
    Tanto, Fausto, tanto davvero e ti ringrazio.
    Oggi mi è sembrato di stare seduta ad un tavolo con un amico che, senza mai annoiarmi, mi ha raccontato una storia. L'ha raccontata dolcemente, elegantemente e con grande sensibilità.

    Grazie.
    Grazie anche della pazienza che hai avuto nell'aspettarmi.

    clelia

  7. I titoli mi hanno confusa e leggo solo ora che questa è la fine di un lungo viaggio.
    Un po' mi spiace sapere già dove si approda ma questa storia entra dentro, anche avendone letto solo un frammento e andrò a ritroso. Aspettami.
    Grazie!

    betta

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