L’ultima pagina di R enata e i sogni

Ciao navigatore degli spazi siderali, questo è il mio ulti-mo messaggio, sento di essere arrivata alla fine della cor-sa. Sono contenta, la vita è stata generosa con me. Ho fatto del mio meglio per far fruttificare i doni che ho ri-cevuto. Certamente con il senno dell’uomo adulto avrai compreso e perdonato il mio gesto di abbandono. È sta-to un sacrificio ma desideravo per te una vita normale, senza pentimenti e rimorsi. È stato meglio così. Hai ac-canto una donna straordinaria. Max è affascinato da Neli, all’ospedale hanno conversato a lungo, indiretta-mente ho ricevuto tante informazioni sulla vostra vita, sull’amore e sulla pace che regna nella vostra casa, que-sto mi ha rassicurato, la mia decisione è stata giusta. Il nostro bambino ora è un uomo, intelligente, maturo e capace ma ha bisogno di qualcuno che gli sia famiglia. Siete in tempo per recuperare gli anni che vi ho rubato. Te lo affido, prenditi cura di Lui.Con amore, per sempre. Renata».

La luce nella camera degli sposi si spegne.

Cinque scalini più in alto la luce è accesa nella mansar-da dal soffitto a perline color abete. Due piumini azzurri coprono i lettini negli angoli opposti, in mezzo alla stan-za nel terzo letto col piumino a quadrettoni rossi e blu, Max ha guardato le fotografie e i disegni alle pareti gial-le. Sui suoi occhi stanchi calano le palpebre, la serata è stata intensa, tutti hanno bevuto qualche bicchiere in più, bisognava fare festa, l’acqua delle lacrime si è tras-formata nel vino della gioia, augura la buonanotte ai fra-telli. Daniele gli dice a bassavoce:

«Mario è già crollato, tra qualche istante lo sentirai rus-sare, è abbastanza discreto ma prendi questi tappi per le orecchie, io li metto sempre; se vuoi spengo la luce. La domenica dormo fino a mezzogiorno, ma mi raccomando svegliaci prima di partire, ho memorizzato il numero del tuo cellulare, teniamoci in contatto ora, abbiamo tante cose da raccontarci. Buonanotte Max, cerca di dormire. Il papi sicuramente faticherà a prenderà il sonno, era troppo alle stelle stasera. È da quando Mario è andato via di casa che non lo vedevo così felice».

«Buonanotte Daniele, e buonanotte anche a te che dor-mi Mariolino».

Fossero state tre sorelle non avrebbero smesso di chiac-chierare per tutta la notte. Loro no, per ora sono soddis-fatti non hanno bisogno di spiegazioni e chiarimenti ul-teriori, ognuno ha i propri sogni da inseguire.

Il vento soffia sulle vele dei sogni. I dormienti sono gusci di noce erranti nell’oceano della memoria.

Daniele sogna. Adagiato sulla paglia in una cesta di vi-mini collocata tra una bambina vestita da Madonna e un bambino vestito da San Giuseppe lui è Gesù. Indossa una vestina bianca; una corona d’oro simile a quella dell’albero di Natale circonda i suoi lunghi riccioli biondi. Il tendone di velluto del sipario color porpora li separa dal brusio delle voci degli spettatori seduti sulle poltroncine nel salone del teatro parrocchiale in attesa dell’inizo del saggio della scuola materna. Ogni anno per quella parte le maestre scelgono il bambino più bello e secondo suo padre sarebbe stato molto difficile trovarne nel raggio di un milione di chilometri uno bello così, anche se è l’unico bambino a non volere stare in quella culla, lui non è fatto per mettersi in mostra, né ora né mai. All’apertura del sipario quando le luci impallidi-scono e parte la musica l’agitazione comincia a tambu-rellare nel suo piccolo petto. Nel buio della sala, tutti gli occhi sono puntati su di lui, i suoi invece cercano dispe-ratamente quelli della persona che lo potrebbe salvare dall’insopportabile posizione in cui si trova. Il telone è aperto, il piccolo Gesù fa leva con le manine sulle spon-de della cesta e si lancia con un balzo fuori dal palco nelle braccia del padre che scattando dalla poltrona in prima fila lo artiglia con la rapidità di un falco. I due si fanno piccoli piccoli e si siedono nella poltrona. Mentre un secondo Gesù con la vestina rossa ha già sostituito Daniele, il papi gli sussurra: «Stai tranquillo ora sei con me. Sarai sempre con me».

Mario sogna. È un piccolo seme e vorrebbe penetrare nel terreno fertile del bosco e diventare grande, rigoglio-so, forte come una quercia per dimostrare quanto vale e invece cade su una roccia. Il suo desiderio di diventare un albero maestoso svanisce, ma si rende conto di essere un meraviglioso cespuglio di rododendro che sfida i venti e le tempeste di neve in montagna. Soli quanto si vuole, uniti quanto si vuole, moltiplicati quanto si desi-dera, immerso nella passione del flire della vita.

Non diventerà un’autostrada, ma un sentiero angusto tra le cime, metterà tutta la passione per realizzare nella vita il disegno per cui è chiamato a diventare: “Il meglio di ciò che sei, sempre”ciò che la sera del 28 maggio di due anni prima, mentre stava lasciando la casa dei genitori, il padre gli aveva augurato.

Neli sogna. È nel letto dell’ospedale, sta aspettando la vi-sita di una persona non è mai venuta a trovarla, È lunga l’attesa quando vorresti avere accanto qualcuno che ti rassicurari tenendoti la mano stretta nella sua.

Una grande energia invade il suo corpo, si sente di nuo-vo forte, è guarita, si alza dal letto, esce dalla sua stanza e comincia a correre, sempre più forte, ha paura di arriva-re troppo tardi. In fondo al corridoio c’è una grande lu-ceabbagliante, non distingue l’immagine ma sente la vo-ce: “Non affannarti Neli la tua generosità non è mai in ri-tardo. Siediti accanto al mio letto, riposa un po’ qui con me. Sul comodino c’è un’arancia, tagliala a metà per fa-vore, ne berremo il succo insieme, così sarò presente quando ti prenderai cura di mio figlio, perchè so che lo farai. Neli, io te la affido, me ne vado serena perchè so che è in buone mani, tu sei ricca d’amore e lo dispense-rai a piene mani anche a lui”.

La luce svanisce, in bocca rimane un dissetante sapore.

Max non stringe tra le braccia l’orsacchiotto, non ha fat-to il conto alla rovescia stanotte, la navicella spaziale è ritornata sulla terra ormai. Sogna.Tre giraffine galoppa-no inseguendo la grande giraffa, corrono, corrono, cor-rono, finchè arrivano in un prato verde. Una donna ve-stita di bianco le sta aspettando con una palla in mano, la lancia in alto, poco distanti due bambini guardano verso il cielo dove un grande angelo afferra la sfera colo-rata e la consegna nella mani di un terzo bambino che lo sta aspettando tra le braccia della sua mamma in fondo alla radura.

Una ninna nanna malinconica culla e abbracciabil sogno di Stefano:è la canzone Dream letter di Tim Buckley. La sonorità morbida delle velocissime note di una chitarra a dodici corde, la tenera atmosfera del vibrafono, la com-movente preghiera dell’archetto che scivola sulle corde del violoncello, comunicano la desolazione di un pensie-ro vissuto in disparte, di un sogno altrui.

Un angelo parla al vento e spande tanta luce, quanta più non potrebbe riversare sulle pupille volte verso il cielo:

Signora il tempo vola via, stavo pensando al mio passato.

Oh, per favore ascolta cara le mie vuote preghiere.

Dormi dentro ai miei sogni stanotte

Tutto ciò di cui ho bisogno è sapere di te e del mio bambino.

Oh, dimmi, è un soldato o un sognatore?

È il piccolo uomo di mamma?

Ti aiuta quando può?Ti chiede di me?

Proprio come un giovane soldato, sono stato fuori a combattere guerre che il mondo mai ha conosciuto, ma non le ho mai vinte a voce alta, non ci sono folle intorno a me.

Ma quando vado a pensare ai vecchi tempi, quando l’amore stava di casa con noi, mi chiedo perchè non abbiamo mai provato.

Oh Quanto avrei voluto occuparmi di lui.”

La musica è interrotta da voci conosciute, le stesse che hanno dipinto d’argento la sua vita chiamano i figli per nome.

Neli chiama Mario e Daniele.

Renata chiama Max.

Contrariamente alle previsioni di Daniele, Stefano si è addormentato come un masso, quattro ore dirette, una buona dormita per lui. Alle quattro è sveglio, è l’abitudi-ne, il suo corpo ha preso il ritmo dell’orario di fare il pa-ne. La domenica è il giorno di riposo, scosta le coperte, lascia a letto e a piedi nudi per non svegliare la moglie percorre come un ladro il breve tragitto che porta alla cameretta dei ragazzi.

Il silenzio è invaso dal respiro pesante di Mario; da bambino aveva battuto il naso cadendo dal lettino. Il ba-gliore della luce riflessa nei vetri dell’ingresso gli per-mette di vedere in faccia i suoi tre maschi. “Uno più bel-lo dell’altro, così belli e così diversi, se fossi una donna non saprei chi scegliere, ce n’è per tutti i gusti”. Orgoglio di padre. Scappa via in fretta, non vuole sve-gliarli, torna in camera e si infila di soppiatto a letto. Una voce impastata gli ordina:«Dormi, non scappano i tuoi figli» .

fine ottobre 2007

A metà del mese di Ottobre, Stefano ha sentito al telefo-no quattro o cinque volte il figlio, non vuole disturbarlo più di tanto; l’invadenza non fa parte del suo carattere, però è curioso di sapere come ha passato la giornata, cosa mangia, come si diverte, le solite cose che i genitori chiedono ai figli.

Ha parlato con la moglie, con lei ha letto il diario di Re-nata, le ha riferito anche del resoconto di Max.

Neli si è commossa, ha un bel ricordo e tanta ricono-scenza per il giovane dottore gentile e premuroso cono-sciuto nei giorni del suo ricovero all’ospedale di Berga-mo, ma ciò che più l’ha stupita è la casualità più o meno voluta dei loro incontri. Quello che più la fa sorridere è coincidenza nella data di nascita dei ragazzi: Daniele il 31 ottobre, Max l’1 novembre e Mario il 2 novembre.

«Il destino si è divertito, ha fatto la sua parte non lo si può negare. Stefano, tra un paio di settimana, tutti e tre i ragazzi compiono gli anni, festeggiamo l’anniversario in un’unica volta, è l’occasione giusta per farli incontrare, anche i nostri figli devono essere messi al corrente di questa presenza nella tua vita».

«Mi fai felice Neli. Organizziamo per il sabato sera del 3 novembre. Avviso Max. Ai ragazzi diciamo solo che ci sarà una grande sorpresa».

Sabato sera

Sulla grande tovaglia bianca stesa sul tavolo del salone, piatti, bicchieri e posate sono al loro posto. Stefano ha preparato il centrotavola immergendo in un vasetto d’acqua nascosto in una dorata ciambella di pane dei crocus gialli incorniciati dal verde lucente delle foglie.

Daniele e Mario seduti sui divani blù aspettano con la mamma l’arrivo del padre con la sorpresa.

«Mamma, non ci vuoi proprio dire cosa è andato a pren-dere per noi quel pazzoide di tuo marito» dice Daniele, che mantiene fin da quando era bambino la frenesia di aprire i pacchi dei regali.

Mario seduto accanto alla mamma fa le fusa come un gatto, accarezzando il maglione di Neli con la sua guan-cia da ventitreenne senza barba esclama sorridendo:

«Vuoi vedere che il papi ha vinto al superenalotto».

«Senza la schedina? Lo sai che ha le braccine corte. Il papi ha sempre detto che sono soldi sprecati quelli spesi in quel modo».

Dall’esterno arriva il rumore di una portiera che sbatte. «Arriva, vediamo cosa ha escogitato stavolta».

La porta si apre, il padre introduce l’ospite: «Daniele e Mario, ecco la sorpresa. Max vieni, accomodati, questi sono i miei due figli mia moglie la conosci già».

Si stringono la mano, sono tutti molto sorpresi. Neli lo ha riconosciuto, sono passati solo quattro anni dall’ulti-ma volta che l’ha visto in ospedale. I ragazzi si chiedono perché il papi abbia invitato questa persona, finora gli invitati alla festa sono sempre stati i nonni.

«Ragazzi, fate uno sforzo di memoria, non vi ricordate di lui? L’avete già incontrato un paio di volte, in occasioni eccezionali.Portava capelli più lunghi, era abbronzato…».

Max sorride, è impacciato ma regge il gioco del padre. Mario non gli toglie gli occhi di dosso, poi guarda il fra-tello e sussurra: «Ho capito chi è, io lo so. L’ho ricono-sciuto, sforzati, a Cala Mesquida ti ha tratto in salvo dalle onde del mare in burrasca».

I due fratelli escalmano all’unisono: «Max?».

«Si. Sono io».

Daniele si schiarisce la voce per l’emozione:«Io ricordo due mani che mi spingevano fuori dal mare, quando sono arrivato alla spiaggia sono corso in bagno, in effetti non l’ho guardato in faccia, anzi non ho neanche avuto il tempo di ringraziarlo perché quando sono tornato all’ombrellone lui se ne era già andato. Colgo questa occasione per farlo ora. Grazie. Ma ancora non capisco il perché della sua presenza qui questa sera».

Interviene Mario con l’irruenza di sempre, quando co-mincia a parlare non bisogna interromperlo:«Daniele, se il papi lo ha portato qui proprio in questa occasione è perché un motivo c’è, e sono sicuro che non c’entra con la malattia della mamma, lei è guarita ormai, e poi non vedi come è felice, pende dalle sue labbra come quando ci faceva gli show durante la cena. Ricordi?. Mi stuzzica-vi perchè sapevi che il papi non sarebbe riuscito a regge-re alle mie insistenti richieste e mentre ripetevo senza sosta “ Papi facci ridere” tu correvi in cameretta a pren-dere le giraffine di gomma e lui cominciava a farle salta-re; la grande superava sempre tutti gli ostacoli mentre le due piccole cadevano, una volta nel piatto, una volta nel bicchiere, nel paniere, sulla frutta. Noi due ci sbellicava-mo dalle risate e la mamma al settimo cielo gioiva anche perchè alla fine avevamo mangiato tutta la pappa».

Stefano non sa da che parte cominciare, sono così alle-gri, ha quasi paura di rovinare l’atmosfera che si è crea-ta. Neli intuisce il suo stato d’animo e fa la mossa giusta, si fa avanti, prende Max per mano e lo fa sedere accanto a sé sul divano.

«Questo signore ha fatto tanto per la nostra famiglia, proprio nei momenti in cui avevamo bisogno di un aiuto al di sopra delle nostre forze lui è stato presente, ora è qui con noi per festeggiare non solo il vostro complean-no, ma anche il suo che cade proprio in mezzo alle vo-stre date, lui è nato il 1 novembre. Tre scorpioni. Una strana combinazione vi accomuna».

Il padre rivolgendosi ai due fratelli rompe il silenzio:

«I vostri compleanni sono sempre stati una occasione di grande allegria, alle sue feste invece c’era sempre un posto vuoto…quello del suo papà».

Max abbassa la testa, Mario guarda il padre, gli occhi so-no lucidi. Daniele ha un colpo di tosse, è agitato, ma si trattiene più che può, nessuno deve vederlo piangere. Stefano prosegue: «Il suo papà non sapeva di avere un figlio, non conosceva la sua esistenza. Un figlio che tutte le sere si addormentava col desiderio di svegliarsi un mattino tra le sue braccia. Sono io il suo papà. Sono suo padre, e gli voglio tanto bene, e anche voi imparerete ad amarlo perché ha rispettato la volontà della sua mamma ed ha aspettato tanti anni questo momento. E ora se vo-lete piangere, fatelo subito con me, le mie sono lacrime di gioia, spero lo siano anche le vostre».

Neli interviene al momento giusto, come sempre con semplicità e naturalezza che la contraddistingue e scio-glie il pathos del momento:

«Vi chiedo un favore: sediamoci a tavola così le vostre la-crime cadono sulla tovaglia e non bagnano il pavimento, perché poi sono sempre io a sgobbare, qui nessuno mi aiuta, però non ho perso la speranza, ora c’è Max, un uo-mo in più, speriamo che non sia come gli altri tre. Che ne dite, cominciamo a mangiare».

Durante la cena è Max a dare le risposte alle domande dei fratelli e quando racconta della partenza a razzo di Stefano in via Garibaldi, in retromarcia, senza freccia, a fari spenti, comincia lo show; ognuno ha parecchi episo-di da raccontare sui disastri del padre automobilista. In testa alla hit parade sono i racconti della mamma, testi-mone in prima persona delle avventure dello sciagurato guidatore.

Daniele ride da uomo, come faceva anche da piccolo, i suoi profondi Ha!Ha!Ha! esplodono soffocati come i massi trascinati da un torrente di montagna.

La risata di Mario è uno sparo, veloce ed intensa.

Le spalle di Stefano sussultano, fa uno sforzo per conte-nere l’allegria nella gabbia toracica, nasconde la faccia nelle mani finchè l’ilarità trova una breccia e scoppia all’esterno trascinando tutta la famiglia nella liberatoria risata collettiva.

Dopo cena, Stefano felice e provato dalla serata intensa di emozioni, dopo aver augurato la buona notte si ritira per il riposo notturno.

A mezzanotte i tre ragazzi sono ancora seduti a chiac-chierare. Neli li interrompe e interpella Max con la dolce insistenza alla quale nessuno riesce a resistere: «Ti fermi qui a dormire domani mattina torni a Bologna, io e mio marito ti accompagnamo. È desiderio di tuo padre fare visita alla tomba della tua mamma e poi passiamo a casa tua per ritirare il quadro che lei gli ha donato. Vado su nella camera dei ragazzi a preparare il tuo letto».

Mario avanza una richiesta: «Mamma ti dispiace se mi fermo anch’io, tiro fuori l’altro lettino, così stanotte noi tre fratelli dormiamo insieme».

Neli è d’accordo, è contenta che il figlio voglia dormire ancora nella sua cameretta, vola al piano di sopra, la gioia non gli fa vedere i gradini delle scale.

C’è ancora la luce accesa quando entra nella camera ma-trimoniale: «Non riesci ad addormentarti. Ho preparato i lettini, anche Mario vuole dormire nella sua cameretta, ora li chiamo tutti e tre e li mando a nanna. Arrivo subi-to anch’io, sono stanca, è stata una serata abbastanza…»

«Abbastanza. Hai ragione, vieni a letto, finisco di leggere le ultime pagine del diario».

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Guida da cani come me!

  

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Massimiliano non parla, non ci riesce, ha visto la com-mozione di Stefano, appoggia la chitarra sulla sedia, al-lunga la mano, prende il diario lo apre, punta il dito ver-so la personcina sull’erba: «Quel bambino sono io, ti ho aspettato tutta la vita, e anche da quando ho saputo la verità ho atteso il momento di abbracciare il mio papà sperduto nei cieli. Ora sei qui davanti a me e vorrei…».

L’uomo tornato dallo spazio, si lancia tra le sue braccia per stringere ed essere stretto dal figlio ritrovato.

Sono passati tanti anni dal primo incontro con sua ma-dre ma non è cambiata l’irruenza delle sue domande, la corsa nella sua voglia di sapere:

«Da quanto tempo conosci la mia identità, come hai sco-perto chi ero, dove e come vivevo? ho la sensazione di a-verti incontrato più di una volta nell’arco della vita, sempre nei momenti difficili per darmi una mano per togliermi dai guai. Il dottor Massimiliano che si è dedi- cato con cura per guarire mia moglie è lo stesso Max che ha salvato i miei figli, Daniele dalle onde del mare e Mario dall’acqua della piscina. Come è possibile una combinazione simile? C’è un disegno particolare che faccio fatica a comprendere nel nostro destino». «Papà. Non è facile pronunciare questa parola anche se lo desideravo da tempo. Facciamo due passi all’aperto, è ancora una bella giornata, portami su al Castello, tu e la mamma non ci siete mai andati insieme. Prendi il diario, continuerai a casa la lettura, basta emozioni per oggi, un po’ di informazioni te le posso dare io. Chiudiamo lo studio, è mio adesso, anzi è nostro, ho fatto fare il dop-pione delle chiavi ».

Dietro a quella porta sono conservati i ricordi; per Max sentirseli raccontare ha un significato per rileggere la parte della storia che non conosce.

Si incamminano verso il Cidneo, la collina sulla quale troneggia il Castello. Seduti su una panchina davanti al panorama della citta Max fa il suo resoconto per soddis-fare le domande del padre:

Quando sono diventato più grande, ai tempi della pre-adolescenza ho cominciato a dubitare della versione del-la mamma sul tuo conto. Non c’era nessuna fotografia, lettera, indirizzo, nessuno a cui chiedere informazioni; non c’era una missione segreta, nessun giornale parlava di un astronauta italiano sperduto nello spazio. Avevo capito che la mamma mi nascondeva qualcosa, era molto evasiva sull’argomento, cominciammo a scontrarci; di fronte al suo muro di silenzio ho pensato di tutto anche le cose peggiori. Lei ripeteva che ero troppo piccolo per comprendere ma che un giorno avrei conosciuto la veri-tà. Finchè, l’ho messa alle strette. A diciassette anni sono scappato di casa. Un sabato mattina ho preso il treno e sono andato dallo zio, il generale. Il mio padrino mi ha sempre amato, ci è stato molto vicino, ci ha aiutati nono-stante l’esercito lo tenesse parecchi chilometri lontano dalla nostra casa. Appena sono comparso alla sua porta ha chiamato la mamma per tranquillizzarla e informarla che sarei stato con lui un paio di giorni. Le ha fatto pro-mettere di dirmi la verità, era il tempo giusto quello, sta-vo diventando grande, sarei stati in grado di affrontare ed accettare la realtà, lo zio ha sempre avuto molta sti-ma e fiducia in me.

Così quando sono tornato a casa ho conosciuto la vostra storia segreta, ora la conoscevamo in quattro, noi tre e lo zio. Da subito ho espresso il desiderio di incontrarti, vo-levo il tuo indirizzo, lei me lo ha negato sostenendo che avrei potuto distruggere o causare complicazioni a te e alla tua famiglia. Questo lo capìi subito ma era tanta la curiosità, il desiderio di vederti. Sfruttando a insaputa della mamma l’artificio Pico fermoposta, con una scusa ti ho chiesto per lettera dove passavi le vacanze quell’an-no e, conosciuta la destinazione ed il periodo, mi sono recato sulla Riviera romagnola, ho contattato il proprie-tario dell’Hotel e grazie alla raccomandazione dello zio

mi sono fatto assumere come cameriere per tutta la sta-gione estiva. La mamma era all’oscuro della vera ragione per cui volevo lavorare, suo fratello l’ha convinta dicen-do che era giusto farmi provare a guadagnare i soldi per la motocicletta che da tempo sognavo.

Vi ho visti, conosciuti, ho passato la vacanza accanto a voi, facevo di tutto per starvi vicino, è stato facile farmi assegnare dal caposala il vostro tavolo per servirvi. Quando ho ripescato dalla piscina il piccolo Mario, non so spiegare la gioia di tenerlo tra le braccia; il mio fratel-lino mi accarezzava dicendo una parola…

Stefano rompe il silenzio: «Morbido».

«Si, allungando la o diceva “mooorbidoo”. A settembre quando sono tornato a casa ho raccontato la mia espe-rienza alla mamma. Si è un po’ arrabbiata, le avevo pro-messo che non avrei interferito con la vostra vita, ma quando l’ho rassicurata di non aver palesato la mia iden-tità si è tranquillizzata ed ha voluto sapere tutto su di te e della tua famiglia.

Nel ’93 a Cala Mesquida nell’isola di Maiorca è stato il destino a farci incontrare, non ce l’avreste fatta da soli a salvarvi dalle onde. Quando siamo arrivati sulla spiaggia temevo avresti riconosciuto in me il cameriere della Ro-magna per questo mi sono defilato alla svelta facendo finta di niente. Mariolino mi aveva riconosciuto, non a-vrei saputo dare una spiegazione per quella coincidenza di incontri-salvataggi, sono scappato via, ma arrivato alla mia Jeep ho vomitato; il pensiero che avrei potuto per-dere te e Daniele mi aveva causato un forte dolore allo stomaco. In quel momento avrei voluto chiamarti in disparte, restare solo con te e rivelarti la mia identità, ho resistito, ho mantenuto la promessa alla mamma: lasciar passare ancora qualche anno, c’era un disegno per tutto, non dovevo avere fretta e aspettare che i tuoi figli diven-tassero adulti. Lei mi diceva:« È proprio dei giovani il volere tutto subito. Se vuoi costruire la casa della felici-tà, ricorda che la stanza più grande deve essere la sala d’attesa perchè un giorno anche per te arriverà il treno della gioia».Ho resistito anche perchè non eri più lo sco-nosciuto astronauta sperduto nello spazio ma un aqui-lone che volava lontano nel cielo ed io avevo in mano il filo della tua assenza, un giorno avrei potuto tirarlo per arrivare a riprenderti.

Gli anni sono passati in fretta, il tempo vola per tutti, l’infarto e la morte dello zio, la malattia della mamma, l’impegno alla facoltà di medicina, una delusione amo-rosa, mi hanno coinvolto totalmente.

Il giorno della laurea non c’era nessuno a farmi le con-gratulazioni, la mamma stava male in quel periodo, avrei voluto ci fossi tu a condividere la mia gioia. Ho un ricor-do triste di quel momento, ho sentito forte il peso della solitudine, ma ho fatto finta di niente con la mamma, era troppo orgogliosa di me, del mio risultato, del premio al mio impegno.

In seguito mi sono specializzato in ematologia e nel 2003 ci siamo incontrati di nuovo a Bergamo per la malattia di tua moglie. Mi piace Neli.Hai scelto proprio bene, è una cara persona, molto fine. Una madre la cui preoccupa-zione primaria non era la salute ma la famiglia, i due figli. Non si può misurare l’amore di una madre.

La mamma, Renata, non mi ha fatto mancare niente, ha fatto di tutto perché un giorno tu fossi orgoglioso di me e di come mi aveva cresciuto. Spero di non deluderti. Forse sto correndo troppo. Ti sto creando dei problemi, non eri preparato per una sorpresa simile ti capisco.

Pensavi di incontrarla lei e hai trovato me.

Le condizioni di salute della mamma erano precarie, an-che lei soffriva di cuore come lo zio, la cura rallentava la malattia ma era chiaro che non sarebbe andata avanti ancora per tanti anni. La trovavo spesso intenta a guar-dare gli schizzi dove aveva catturato e fissato il suo Icaro, voleva realizzare il quadro per il quale ti aveva ingaggia-to. La tela stava sul cavalletto, ma non me la lasciava guardare, la copriva dicendo: «Prima di andarmene per sempre voglio lasciargli il mio regalo. Sarà una sorpresa per te e per lui».

A maggio dell’anno scorso ha avuto un infarto, capiva di essere arrivata alla fine dei suoi giorni, avrei voluto chia-marti, realizzare il desiderio di incontrarci per stare in-sieme per una volta noi tre, la sua famiglia, ma sapevo che non era d’accordo e non l’ho fatto.

Una delle ultime sere, nella casa sulle colline bolognesi, mi chiese di stare accanto a lei sul divano, volle che mi posizionassi con la testa sulle sue ginocchia come quan-do da piccolo mi addormentavo raccontandole la crona-ca delle mie giornate mentre lei infilava le dita tra le mie ciocche per sciogliere i nodi dei capelli. Mi disse che ogni volta diventavo sempre più pesante da portare nel lettino, così mi copriva con il plaid zzurro e giallo e mi lasciavo dormire sul divano.

Non l’ho mai abbandonata la mia copertina.

Continuò dicendo che sentiva che i suoi giorni stavano scemando, non volle lasciare il divano, mi chiese di co-prirla con il mio mantello azzurro e giallo e mi fece pro-mettere di lasciar passare un anno dalla sua morte pri-ma di contattarti. Mi mostrò il diario che avrei dovuto consegnarti, facendomi promettere di rispettare ogni tua decisione, ricordo ancora le sue parole: “Ha una famiglia da trent’anni oramai, chissà come è cambiato, se è rima-sto nel suo cuore un frammento del nostro incontro; di questa storia impressa nella mia carne e origine della tua vita”.

Ha parlato solo di te nei suoi ultimi giorni. Un mattino l’ho trovata addormentata per sempre, sul plaid c’era la lettera che hai letto, scritta la notte prima di morire».

La sera è calata sulla città, i due camminano vicini.

«Ti accompagno alla macchina, poi prendo il treno e tor-no a Bologna».

«Quando ci vediamo Massimiliano. Posso chiamarti Max?»

«Chiamami come ti piace, ho aspettato tanto questo mo-mento, io non riesco a chiamarti papà, ti chiamo Stefa-no, ti dispiace?».

«No, è normale questo, non preoccuparti, ora ce l’hai un padre anche se per ora lo chiami Stefano. Quando sarò a casa riferirò a mia moglie del nostro incontro, lei cono-sce la mia storia con tua mamma; non dico niente ai ra-gazzi, vorrei fossi tu a comunicarglielo, mi sembra una buona idea, sono grandi e capiranno, sei d’accordo?».

«Non so, parlane prima con tua moglie, poi vedremo, io aspetto e accetto ogni vostra decisione, mi sembra giu-sto, e oltretutto l’ho promesso alla mamma».

«Sei proprio un figlio giudizioso».

Si scambiano i numeri di telefono, il figlio ha il cellulare il padre non lo usa, dice che non fa parte della sua vita, non vuole essere alle dipendenze della tecnologia, ma sa benissimo che al giorno d’oggi non se ne può fare a me-no, i suoi due figli ne hanno già cambiati cinque o sei.

Nel lungo abbraccio il calore dell’appartenenza passa da un corpo all’altro. «Stefano, hai dimenticato il tuo regalo allo studio, sape-vo che suonavi e ho scelto una chitarra, anch’io mi dilet-to sulla dodici corde, hai le chiavi dello studio, puoi an-dare a prenderla quando vuoi. Arrivederci a presto».

«Ti chiamerò Max, voglio recuperare il tempo perduto nello spazio». Il padre ingrana la prima marcia, esce dal parcheggio senza guardare nello specchietto retrovisore, per fortuna non passa nessuno, si immette sulla corsia senza azionare la leva della freccia.

Il figlio lo segue con lo sguardo: «Accendi i fari papà, è buio. Guida da cani come me».

Il diario…… continua

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Nella prima pagina, la dedica scritta con la calligrafia dello studente innamorato: Improvvisamente sento che nei miei pensieri per te c’è una grande nostalgia, una gran voglia di andare via, vorrei trovarmi dove vivi tu.

Aprile ‘72

Caro Stefano, ti scrivo dall’ospedale di Bologna, dove sto assistendo mio padre; le sue condizioni sono gravi. La visita, le analisi e gli accertamenti hanno confermato la mia preoccupazione. Gli rimane poco tempo, io mi fer-mo qui fino alla fine dei suoi giorni; siamo stati lontani, troppo. Voglio recuperare- anche se è tardi- il nostro rapporto, lui è lucido, ho bisogno di parlargli per fargli sentire il mio affetto.

La permanenza in ospedale coinvolge, anch’io mi sento un po’ strana questi giorni, sto bene non preoccuparti, ma ho deciso di fare alcune analisi, sono a metà della vi-ta e non ho mai fatto un controllo, perciò stamattina mi sono presentata a digiuno per i prelievi, tra qualche gior-no avrò la risposta. Mi manchi.

Mio guardiano dei cieli, sono le due di notte, il papà dor-me, sembra tranquillo, oggi è stato molto male, gli hanno dato dei calmanti, il dolore è passato e abbiamo comin-ciato a parlare, è consolante avere qualcuno che ti sta a sentire e ti comprende. Quante cose ci siamo tenute nas-coste, quante parole non dette, quanto è grande l’amore di un genitore.

Sto combattendo una grande lotta dentro me, il corpo e il cuore, sono dalla tua parte, tifano per te, vorrei spalan-care la finestra e urlare per dirti che sono qui e ti sto as-pettando con impazienza, invece la mente, la ragione mi impone il silenzio, mi dice di mettere fine alla nostra sto-ria, mi accorgo sempre più quanti potrebbero essere i disagi e le difficoltà da superare, prima di tutto anche se non voglio ammetterlo è la nostra differenza d’età. È un match alla pari, starò a veder nei prossimi round cosa succede.

Maggio ‘72

Il caro babbo è venuto a mancare. Ho parlato tanto con lui, prima di morire mi ha affidato sua moglie. La mam-ma è sola, nella casa in collina soffrirebbe troppo, ho deciso di trasferirmi qui con lei, non tornerò a Brescia. Ma non è questo il motivo della decisione che sicura-mente ci farà soffrire entrambi, le analisi hanno confer-mato il mio dubbio: aspetto un bambino.

Una tua gocccia tra milioni ha trovato una conchiglia in me,ha preso dimora ed sta diventando una perla.

Hai capito bene, un bambino!. Non ero io l’incapace, la sterile come voleva farmi credere mio marito, era suo il problema. La vita che porto in me è frutto del nostro amore, è tuo il bambino che darò alla luce a novembre. Immagino tu possa comprendere la mia gioia.

La mia felicità ti esclude, è grave non condividere la gioia di una nascita con la persona coartefice di essa. Non so come dirtelo, ma ho deciso di lasciarti fuori, sei responsabile e generoso ma hai solo diciotto anni

Ti lascio al buio, sarai l’astronauta che non trova la via del ritorno, il papà sperduto nello spazio, staremo ad aspettarti tutta la vita finchè un giorno ci incontreremo tutti e tre. Le difficoltà ci renderanno forti, il dolore ci renderà umani, la speranza ci renderà felici un giorno.

Con mio marito è finita, ho chiuso, ormai il nostro rap-porto era spento da anni, la convivenza era diventata sempre più pesante soprattutto da quando sei entrato tu nella mia vita.

Ti ha riconosciuto, me lo ha confermato, ho mentito quando gli ho assicurato che tra noi c’era solo un rap-porto di lavoro, l’ho fatto per salvaguardare la tua car-riera scolastica, non voglio si vendichi su di te. La mia decisione di fermarmi a Bologna e quindi di non rive-derti più forse lo ha convinto, lo spero.

Non sa niente del mio stato e sinceramente non ho nes-suna voglia di comunicarglielo, lui non c’entra nè con questo nè col resto della mia vita ormai. Gli ho detto di darmi il tempo per riflettere; troverà una scusa per giu-stificare ai conoscenti la mia assenza, la motivazione del-la mamma è più che valida. Di sicuro non verrà a Bolo-gna, non si è fatto vedere neanche ai funerali del papà, avrebbe una bella faccia tosta. Mio fratello l’ha chiamato la sera del funerale, gli ha dato una lavata di capo e lo ha liquidato dicendogli che si doveva vergognare, nessuna scusa giustifica la sua assenza, non lo ha mai potuto sopportare, e gli ha intimato di non farsi più vedere. Quando nasce il bambino chiedo la separazione.

È commovente come il mio fratello ha accolto la notizia della mia gravidanza, avevo bisogno di confidarlo a qual-cuno, e in questa circostanza siamo stati tanto vicini, ab-biamo parlato a lungo della nostra vita, della sua e mia solitudine che ora sarà riempita da questa nuova presen-za; questo piccolo seme sparso da te ha messo radici nel-la mia terra fertile, l’ho accolto con gioia e lo farò ger-mogliare e crescere sempre più in alto per fargli cogliere tutta la luce del sole.

Luglio ’72.

Il bambino è una radice che si muove, la tua anima nas-costa nel mio corpo sta intrecciando le sue ossa una ac-canto all’altra, il tuo sangue scorre con il mio e mi tra-scina nella corsa.

Il bambino; parlo sempre come fossi certa che sarà un maschio, quando penso a lui non posso far altro che pensare a te, e quando lo guarderò, lo toccherò, lo bace-rò, sarà come guardare, toccare e baciare te. Così divisi, così uniti.

1 novembre 1972, il giorno dei Santi

È nato Massimiliano. Stefano sei diventato papà. Nostro figlio è arrivato con qualche settimana di anticipo, sano e forte e bello come te. La mia gioia la posso condividere solo sulle pagine di questo diario. Vorrei tu fossi qui a stringerlo tra le braccia. Lo amerò, lo curerò, lo crescerò per tutti e due, farò di tutto perché un giorno tu sia or-goglioso di lui. So già quando sarà quel giorno, ma ora non ci voglio pensare, ho troppo da fare. Sicuramente la lontananza e il tempo faranno svanire nei tuoi pensieri il ricordo di me, tu hai una vita davanti, una vita normale e ti auguro di trovare la persona che ti aiuterà a percorrer-la fino in fondo, ma ti assicuro qui ci sarà sempre un cuore fedele, ti terrò stretto, niente andrà perso dei nostri giorni insieme, nessun istante, nessun sospiro.

Mio fratello, il colonnello, sarà il padrino, si è impegnato ad assumersi tutte le responsabilità per il mantenimento e l’educazione del nipotino, alla mia richiesta di trovarmi un lavoro si è opposto dicendo che provvederà lui a tut-to il necessario. Ho accettato anche perchè devo occu-parmi della mamma che dopo la morte del papà è crolla-ta. Per ora andiamo avanti così, non abbandonerò la mia professione, col tempo riprenderò la mia passione, i miei disegni, i miei colori.

ha messo il primo dentino

mi ha chiamato mamma per la prima volta

ha fatto i primi passi

ha la febbre

Capitolo IX. Max

Un nodo stringe la gola, l’aria fatica ad arrivare ai pol-moni, il cuore vorrebbe fermarsi e invece pulsa negli orecchi. Stefano bacia il diario e lo chiude, non vuole bagnare il disegno del suo bambino, lo stringe al cuore, come avrebbe stretto suo figlio per tutti quegli anni. Il suo piccolo Max non è mai andato a cavallo sulla schiena del papà, non ha ascoltato le sue fiabe, non ha mai fatto un tuffo con lui in mare o giocato a nascondino tra gli alberi di un parco; il figlio negato ha dovuto rinunciare a tante cose.

Un cinquantenne sta piangendo ad alta voce, qui nessu-no lo sente, l’uomo bambino ha ricevuto tanto amore dalla vita, tanto calore, invece il suo piccolo è rimasto fuori al freddo, in attesa del suo ritorno, pronto a sal-targli al collo per baciarlo e stringerlo. Il suo primo figlio è diventato uomo orfano della presenza del padre.

Allunga la mano impugna la chitarra con la scritta Mag-giore Tom, l’appoggia sulla gamba accavallata, posiziona i polpastrelli delle dita della mano sinistra sulle corde e con la mano destra le pizzica, è accordata. Comincia a suonare.

DO maggiore, MI minore, LA minore, LA minore7, Sol, Re maggiore7.

L’astronauta risponde cantando al saluto del bambino: «Maggiore Tom alla Torre di controllo, sono uscito dallo sportello, sto galleggiando nello spazio in modo strano

e le stelle sembrano molto diverse oggi perchè sto sedu-to in un barattolo di latta, lontano sopra il mondo.

Il pianeta Terra è triste e non c’è niente che io possa fare. Malgrado sia lontano più di centomila miglia, mi sento molto tranquillo e penso che la mia astronave sappia dove andare.

Dite a mia moglie che la amo tanto, lei lo sa».

L’atmosfera della canzone coinvolge Stefano, le lacrime gli appannano gli occhi, non si rende conto della pre-senza accanto a lui finchè sente il suono della seconda chitarra. Alza la testa, davanti a lui un giovane sta suo-nando le stesse pennate sugli stessi accordi.

Le due voci continuano insieme:

«Torre di controllo a Maggiore Tom. Il tuo circuito si è spento, c’è qualcosa che non va.

Mi senti, Maggiore Tom?».

«Sono qui che galleggio attorno al mio barattolo di latta,

lontano sopra la Luna, il pianeta Terra è triste e non c’è niente che possa fare ».

Ora è tutto chiaro, Stefano ha capito, appoggia la mano sulle corde e incantato guarda la persona accanto pro-seguire da sola pennando sempre più vigorosamente sulle corde metalliche.

Can you hear me Major Tom? Can you hear me Major Tom?

«Mi puoi sentire maggiore Tom?».

In quelle parole c’è la disperazione di chi ha atteso per tutta la vita questo momento.

Il padre stoppa le corde e lo abbraccia

«Sono qui ora, sono tornato, il tuo papà non ti lascerà più solo ad aspettarlo».

Lo guarda bene in viso, lo ha riconosciuto, è il dottore del reparto ematologia dell’ospedale di Bergamo.