Sul tavolo una bottiglia di spumante, due flute, il panfor-te, un torrone a pezzi, mandarini e una scatola di ciocco-latini. Renata lo accoglie con un abbraccio: «Oggi non si lavora, facciamo festa, togliti il cappotto, portiamo tutto di sopra, ci abbuffiamo e facciamo una bella chiacchiera-ta affondati nel divano. Hai il fiatone. Scommetto che hai fatto la strada di corsa».
«Avevo una voglia di vederti. Questa mattina il tempo non passava più: cinque ore, trecento minuti, diciottomi-la secondi, diciottomila bum bum nel petto, Ho bruciato i marciapiedi per arrivare più presto possibile».
«Avevi paura di non trovarmi più, che partissi senza sa-lutarti».
«Parti.Dove vai?».
«Oh scusami, ho dimenticato di avvisarti la volta scorsa. Stasera prendo il treno per Bologna, torno dai miei ge-nitori per passare le feste con loro. Mio padre è malato e non si muove più da casa. Forse c’è anche mio fratello, è una vita che non lo vedo. Mio marito non viene con me, non scorre buon sangue tra lui e la mia famiglia. Francamente passare un Natale con lui mi avrebbe man-dato in depressione. Lavoro, lavoro e poi ancora il lavo-ro, sembra l’unica sua alternativa. La sera non c’è quasi mai, credo sia una scusa per andare con un’altra donna o altre, sono convinta che mi tradisce. Non mi importa, a questo punto più mi sta alla larga e meglio sto, lontana da quel nano. Sì, non te lo volevo dire, ma ho sposato il nano infame come lo chiami tu. Mio marito è il tuo pro-fessore di elettrotecnica».
«Cooosa?. Quel cesso ambulante, l’ingegnere fallito dal-la testa a spigoli, la fogna a cielo aperto, come fai a star-gli accanto, ha un alito pestilenziale che… scusa la mia insolenza ma non riesco proprio a trattenermi. Se vuoi ti racconto cosa ha fatto stamattina quel mostro».
Lei sta ridendo a crepapelle, dopo quella scarica di in-sulti a pennellate variopinte. «Voi alunni siete spietati a volte. Racconta cosa è successo, sono curiosa, mi aspetto di tutto da uno come lui che ritiene sempre gli altri al di sotto del suo livello».
«Ha interrogato il Lupo, un ragazzo del mio stesso paese, lo chiamo così perché quando si butta sulle ragazze sem-bra digiuno da un inverno intero. Gli ha fatto una do-manda. Scena muta, un’altra e poi un’altra ancora. Si-lenzio di tomba. È probabile non avesse studiato oppure non stesse bene.Dagli il suo quattro e mandalo al posto. No, ha infierito su di lui, gli ha chiesto che lavoro faces-sero i suoi.Nonostante lui sia sempre in ordine si capisce che sono contadini dall’odore di stalla che impregna i suoi indumenti e comunque fa meno schifo dell’odore di marcio che esce dalla bocca dell’ingegnere.
Quando il mio socio rosso in viso ha risposto, il genio laureato gli ha detto che le sue sono braccia strappate alla terra, e che non può fare il perito industriale uno portato per vanga e rastrello. Non si può umiliare una persona in questo modo. Potrebbe anche avere ragione il mostro elettrico, alcuni di noi torneranno a fare il lavo-ro dei propri genitori, ma la scelta sarà solo nostra. Chi ci dovrebbe aiutare a trovare la strada giusta per il futu-ro non può comportarsi come una iena. Come hai fatto a sposare uno così. Com’è che ti sei innamorata di lui».
I bicchieri sul vassoio sobbalzano, rischiando di cadere per le risate della donna che in serenità gli risponde:
«Mio padre è nato in un piccolo paese sull’Appennino bolognese, era sottufficiale dell’esercito d’istanza a Bre-scia quando ha conosciuto mia madre che viveva in questa chiesa sconsacarata diventata prima abitazione e poi studio-rifugio. Dal loro matrimonio siamo nati, mio fratello nel ‘25 ed io nel ’30. Ho vissuto in questa città fino alla fine della terza elementare, quando mio fratello è entrato nell’esercito per fare carriera militare e noi ci siamo trasferiti nella casa paterna in Emilia Romagna.
Il trasferimento mi ha fatto soffrire: ricominciare da ca-po, lasciare gli amici, staccarmi dal fratello adorato è sta-ta dura per me. Vivevo isolata nella nuova dimora, non c’erano bambini con cui passare il tempo, perciò fui spe-dita in un collegio di suore.
In quella triste e fredda clausura durata cinque anni
l’unica boccata d’aria erano le ore di “svago” con una giovane insegnante che iniziandomi all’uso di matite e colori fece crescere in me la passione per l’arte.
Durante le vacanze estive dell’ultimo anno mi ha portato con sè in un tour in Umbria e Toscana. Eravamo ospitate in un convento di francescane, da lì a bordo di una Ves-pa abbiamo visitato borghi e città fermandoci a dormire presso monasteri, conventi, abbazie. La mia guida aveva viaggiato molto e conosceva persone in tutti i posti. Avresti dovuto vederci, due viandanti motorizzate, due easy riders all’italiana; aggrappata a lei sul sellino poste-riore, sballottata di qua e di là su strade strette non asfal-tate ho visitato Assisi, Gubbio, Sorana, Sovano, Pitiglia-no, Volterra, San Gimignano, San Galgano; un’avventura fuori dal mondo in tempi di guerra.
Mostrandomi gli affreschi, i quadri, i crocifissi o l’archi-tettura degli edifici sacri citava frasi che mi aveva fatto imparare a menmoria.
San Gregorio Magno: –La pittura è usata nelle chiese perché gli analfabeti guardando sulle pareti leggano ciò che non sono capaci di decifrare sui codici-.
Marc Chagall:- Le Sacre Scritture sono l’alfabeto colorato della speranza in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello-.
Ho imparato molto in quell’estate del ’43. Quando è stato il momento di passare alle scuole superiori ho do-vuto penare molto per ottenere da mio padre il per-messo di frequentare una scuola d’arte a Bologna e se non fosse stato per l’intervento energico di mia madre sarei rimasta dalle suore fino alla maturità.
A parte la passione per l’arte, la mia vita scorreva grigia, avanti e indietro da Bologna al paese sull’Appennino, non riuscivo a stringere amicizie a causa del carattere ri-servato che le sorelle del collegio mi avevano forgiato. Alla fine dei cinque anni avevo deciso: sarei diventata maestra d’arte all’accademia di Brera ma mio padre era contrario, disse che era un ambiente pericoloso, con troppi pseudo-artisti sbandati, con la cannetta di vetro nella schiena; non sarei diventatai una brava donna, non sarei riuscita e realizzarmi.
Era una discussione continua, io molto decisa, lui sem-pre più cocciuto nel suo diniego, neanche la mamma ri-usciva a fargli cambiare idea. Mio fratello veniva a casa solo un paio di volte l’anno, se ci fosse stato lui avrei di sicuro vinto la battaglia con papà.
Scenate, porte sbattute, pranzi e cene lasciate sul tavolo, niente da fare il vecchio maresciallo in pensione non mollava, così ho preso la prima occasione, e, quella che doveva essere la mia via di fuga fu l’inizio di una vita infelice.
Un neolaureato ingegnere che mi aveva adocchiato nella chiesa del paesino collinare cominciò a farmi la corte; parlava del futuro con una carriera assicurata a Milano come responsabile dell’ufficio tecnico in una grande in-dustria di elettrodomestici. Quando gli ho raccontato le mie aspirazioni mi propose di seguirlo, sposandolo avrei potuto frequentare l’accademia, libera dal giogo paterno.
Ci siamo frequentati per un breve periodo con una corte serrata, era ben visto dai miei genitori, per loro era il fu-turo sicuro e garantito. Non sapevo niente dell’amore, non avevo mai pensato alla vita di coppia ma era l’unica via d’uscita e l’ho infilata senza pensarci due volte.Una pazzia. Per me fu dura fin dall’inizio. Nell’appartamenti-no di periferia, non mancava nulla. Lui guadagnava be-ne, ma era sempre occupato dal lavoro, faceva spesso tar-di e la sera cenavo da sola.
In compenso al Brera stavo bene, mi appassionavo sem-pre più. Oltre allo studio cominciai a lavorare in una bottega di restauro, imparavo un mestiere e potevo gua-dagnare qualche soldo per le mie spese personali, per essere meno dipendente dal mio uomo corto di braccio.
Non ero innamorata, non provavo niente per lui, preferi-vo i momenti quando lui non c’era. Avevamo deciso di non avere figli per un bel po’, lui diceva che era meglio per i miei studi e per il suo lavoro, inoltre voleva una ca-sa nuova, è sempre stato ambizioso, per lui conta l’im-magine che si proiettia sugli altri, per me invece conta come si è dentro.
A trent’anni, senza casa, figli, amore, avevo finito gli stu-di e lavoravo ancora alla bottega; lui era stato licenziato; alcuni suoi progetti erano andati molto male, era sempre nervoso, irascibile, non riusciva a stabilire buoni rappor-ti con i colleghi e le maestranze così dopo aver cambiato vari posto di lavoro cominciò a insegnare negli istituti tecnici. L’aria di Milano gli era diventata pesante perciò decise di accettare il ruolo di insegnante e ci trasferim-mo qui a Brescia dove riaprii la casa della mamma tras-formandola in questo studio. Ho fatto tutto a mie spese, senza chiedergli un soldo, lui non ha mai visto di buon occhio il mio lavoro, mi ha sempre ostacolata in questo, era invidioso perché guadagnavo più di lui, secondo lui il mio lavoro è stato la causa della mancata maternità.
Volevo un figlio, un motivo per cui vivere, non ti voglio parlare dei nostri rapporti intimi, ma credimi il nostro letto era la tomba dell’amore, per me è sempre stato un sacrificio unirmi a lui, nessun desiderio, nessun piacere, niente, fingevo, ho sempre finto. I figli non sono mai ar-rivati e ogni mese incolpava me di questo, così ci siamo allontanati sempre più; una fortuna per me. Abbiamo cominciato a dormire in camere diverse, forse ha trovato un’altra o altre donne, meglio così. C’è una tregua tra noi, basta mantenere l’aspetto di coppia felice quando frequentiamo gli amici del suo ambiente, le cene, le fe-ste; in casa ognuno fa la propria vita senza interire, per una convivenza pacifica. A suo modo mi ama, è molto geloso e quando qualcuno dei suoi amici si intrattiene con me un po’ più del solito si intromette con la scusa dell’emicrania cronica e mi costringe a fare ritorno a casa.
Chiudo l’argomento, ho vuotato il mio fardello, ti ho si-curamente annoiato, mi sento più leggera, non avevo mai raccontato a nessuno la mia vita, neanche alla mamma. A te lascio il compito di raccogliere le cartacce strappate di questo racconto, appallottolale, buttale nel cestino e di-menticale. Ho vomitato quello che mi stava sullo stoma-co da vent’anni. Ora sto proprio bene, mi è venuta fame.
Mangiamo una fetta di panforte. Stappa lo spumante, è Natale tra qualche giorno. Facciamo festa».Brindano. In silenzio davanti alla finestra lei lascia cantare la sua me-moria nei versi di una poesia: «Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna» .