Topinambur

Topinambur

Autunno 1975. Domenica pomeriggio. La Citroen Dyane 6 CV si ferma davanti al mio portone, la portiera si spalanca a 90°, la voce del Moro mi invita a salire. Parte sgommando come sempre lasciando a naso in aria i ragazzi del bar Fendo. Cosa facciamo oggi chiedo io, non ho niente in programma per la giornata. Lui mi dice che c’è una festa alla quale è stato invitato da una ragazza che ha conosciuto in montagna lo scorso agosto, l’ha rivista in farmacia dove è passato a ritirare una medicina per la madre. La ragazza ha notato come sua madre ha guardato il suo amico, la bellezza non passa inosservata e lui è proprio un bel ragazzo, forse è stata proprio la madre a suggerirle di invitarlo alla festa. Alto, scuro in viso che sembra sempre abbronzato, una flemma nei movimenti che lo rende simpatico soprattutto alle donne, parla poco, lascia spazio all’ascolto di ciò che dicono gli altri. Ci frequentiamo da maggio, quando tornato dal servizio militare mi sono trovato solo, privo di una compagnia, i pochi amici di prima han preso strade diverse e ci siamo persi di vista. A volte mi chiedo cosa abbia fatto scattare la molla che ha innescato la nostra amicizia. Potrei dire che non abbiamo niente in comune. Lui non ama la musica, l’arte, la lettura, entrambi non siamo sportivi, la sua unica passione sono i camion, in special modo i TIR, sopra tutti, al vertice ci sono gli Scania svedesi. Impazzisce quando ne vede passare uno, guidarlo è il suo sogno. Io invece odio guidare. Sono stato costretto a fare la patente per poter impugnare il volante di un mezzo che mi conduca al lavoro.

Appena seduto sul sedile accanto al suo, il Moro ammicca invitandomi a guardare sotto il cruscotto. Ha fatto montare lo stereo. Prima che io abbia tempo di aprire bocca per la sorpresa, inserisce una audiocassetta Stereo 8, la conosco è Electric ladyland di Jimi Hendrix. Fa partire la canzone All along the watchtower. Volume alle stelle. Finestrini aperti. La gioia disegnata sul mio viso fa apparire la fila dei denti bianchi del mio amico. Ti piace mi dice. Faccio cenno di sì. Il Moro sa quanto sia appassionato di musica, di questa musica. Appena fuori paese rallenta e si ferma sul ciglio della strada per darmi tempi di ascoltare la canzone fino alla conclusione. Entusiasta di questa sorpresa gli dico che non c’è problema se lui deve andare alla festa di compleanno della sua amica, per me stare a casa una domenica pomeriggio non è una disgrazia, ho una collezione di dischi che mi può allietare fino all’ora di andare a letto. Lui insiste che devo andare con lui, se non vado io neanche lui ci andrà. A parte la ragazza non conosce nessuno, confessa che non sa come comportarsi e che la ragazza gli ha detto che avrebbe potuto portare qualche amico, forse questa balla l’ha inventata in questo momento. Capisco, però, che ci tiene, in questi mesi più volte abbiamo espresso il desiderio di farci una compagnia per nuove conoscenze ed esperienze. Non mi piace farmi pregare. Accetto. Gli chiedo se ha pensato ad un regalo. Presentarsi a mani vuote ad una festa di compleanno non fa fare una bella figura. Lui non ci aveva pensato. Mi guarda e cliccando l’occhio dice che il regalo è lui, anzi siamo noi due. È già tanto la presenza, confessa di non essere per niente interessato alla ragazza. Non gli piace. Di questo è sicuro al cento per cento. E allora perché andarci gli chiedo. Lui risponde che la ragazza gli ha confidato che ha invitato un bel numero di amiche ed amici, potrebbe essere una buona occasione.

Non sono troppo convinto ma non voglio deluderlo anche perché anch’io sono attratto dal fatto che ci siano tante persone, potrebbe essere l’occasione che cerchiamo ripeto anch’io.

Allora niente regalo. Guardo il paesaggio dal finestrino.

Lui guida piano, flemma anche al volante oggi. Ad un tratto gli chiedo di rallentare di fermarsi. A pochi metri dal bordo della strada, in un terreno incolto mi sorprende l’esplosione spettacolare dei fiori di topinambur. I petali colore del sole svettano gioiosi nelle corolle strappandomi il sorriso e l’ammirazione. Ne facciamo un bel mazzo e ci presentiamo con quello, penso. Sempre meglio che a mani vuote. Glielo comunico, lui accetta. Inchioda la Dyane 6, scendiamo. Lui strappa i fiori dalla pianta lasciando una certa lunghezza ai gambi; mentre me li passa mi impegno a comporre un bel mazzo. Saliamo in macchina, ho notato nella tasca della portiera un nastro di raso, gli chiedo se posso prenderlo, annuisce dicendomi che era quello del fiocco dell’uovo di Pasqua, non ricorda da quanto sia lì. Lo prendo, lo avvolgo attorno agli steli verdi e mi impegno per annodare un bel fiocco. Mi guardo nello specchietto appeso in alto davanti a me e dico che siamo due matti. Ci guardiamo felici. Lui ride, fa scattare la freccia a destra indicandomi il palazzo di campagna dove siamo diretti. Faccio un fischio. Bella la dimora!. Mentre lui parcheggia sulla strada fuori dall’alto muro della cinta, comincio a preoccuparmi pensando in che storia mi sono fatto trascinare Il cancello è spalancato. Scendiamo dalla vettura, entriamo. Nel piazzale non ci sono automobili ma biciclette e qualche motorino; mi viene da pensare che gli invitati alla festa abbiano qualche anno meno di me. Si sente la musica. Proviene da un terrazzo. Ci avviamo. Mi blocco guardando il giardino. In un angolo spicca il giallo di un enorme cespuglio di topinambur. Lo faccio notare al mio socio. Un bel casino. La festeggiata penserà che li abbiamo strappati da lì. Che figura!. Voltiamo le spalle per tornare indietro quando una voce ci ferma. Una signora, probabilmente la madre della ragazza ci invita a prendere la scala esterna per salire in terrazzo. Non ha visto quel che il mio amico ha nascosto dietro la schiena. È una fortuna. Ci giriamo, rientriamo, lui scaraventa il mazzo fiorito sotto la siepe di lauro, mi da una leggera spinta alle spalle e per farsi coraggio manda avanti me. Mi viene da ridere, ma ci sto. Arrivati sulla terrazza, notiamo gli invitati: ragazzi e ragazze, almeno una trentina, l’età varia tra la prima e la quinta superiore. Avevo intuito giusto. Ci sta. Il moro ha diciotto anni, io ventuno. 

La festeggiata ci nota, molla il gruppo che le fa il girotondo; ci viene incontro a braccia aperte. Per la verità corre incontro al Moro che prima di essere abbracciato dalla ragazza mi avvolge le spalle col suo braccio destro e spingendomi davanti a sé esclama: –Auguri questo è il mio regalo–.

Quattro chilometri

La triste estate del ’64 si concluse. Il 4 ottobre il presidente del Consiglio Aldo Moro inaugurava l’Autostrada del Sole, era la notizia principale in tutti i radio-giornali della giornata. Quella mattina il vento spogliava gli alberi disperdendone le chiome con raffiche violente. Aquiloni di foglie volteggiavano nell’aria dorata come un volo di passeri, e posandosi sul terreno lo ricoprivano col mantello dai colori autunnali: una festa cromatica nel paesaggio incendiato da fiamme rosse e gialle.

Quattro chilometri era la distanza dalla casa alla scuola media, Stefano la percorreva ogni giorno con la bicicletta di suo cugino, rimessa a posto per l’occasione: nuovi erano la sella, i copertoni, i freni e i fanalini. 

L’undicenne pedalava con la tranquillità di chi non ama correre e la prudenza di chi aveva ascoltato le raccomandazioni della madre: la strada non perdona, non c’è solo la riga bianca da guardare, attenzione, mani sul manubrio, marciare vicino al bordo destro della carreggiata e soprattutto non distrarsi, molto difficile per lui. 

La prima parte del tragitto non era trafficata, perfetta per rendersi conto di non stare più sotto le coperte; quando invece si immetteva sulla provinciale le cose cambiavano per la fila di camion e automobili che sfrecciavano per raggiungere la destinazione. All’ingresso del paese il panorama si popolava di bambini, ragazzi e adulti che a piedi o in bicicletta raggiungevano la scuola o il posto di lavoro.

Mentre le ruote sfioravano la terra, e lo sforzo gli gonfiava il cuore e i polmoni si sentiva come un uccello, libero di volare. Il breve viaggio era ogni volta una rivelazione; pedalando ad una velocità che gli consentiva di scoprirlo ne gustava i particolari concentrandosi sui dettagli. Oltre al mutare delle stagioni, il suo sguardo si soffermava sulle persone, a seconda di come erano vestite, dai movimenti e dalle espressioni del viso, le inquadrava e le incasellava nel suo immaginario.

La colonna sonora sulle storie degli uomini che popolavano il suo percorso quotidiano era suonata dal vento che accarezzava i raggi delle ruote e i tubolari del telaio della bicicletta come mani sulle corde di un’arpa

Fin dai primi giorni, una coppia in bicicletta calamitò la sua attenzione: un uomo che trasportava sul canotto della bicicletta una bambina, entrambi con le mani ben ancorate al manubrio.

La voce della bambina era un allegro cinguettio. Il padre, sfruttando la pendenza della discesa, le faceva da controcanto dialogando con lei. Lungo il tragitto alcuni passanti lo salutavano chiamandolo per nome –Gianni– altri gli rivolgevano al volo domande alle quali rispondeva cortesemente, spesso con battute allegre. Stefano ascoltava e di volta in volta raccoglieva le informazioni come tessere di un puzzle per completare l’immagine del ciclista e della graziosa passeggera. 

A quell’immagine si era sovrapposto un ricordo: quando seduto sul canotto coi piedi penzolanti di lato era lui il bambino e l’uomo al manubrio suo padre che pedalando con energia sulla strada sterrata e piena di buche percorreva l’incidentato tragitto fino alla statale dove una fila di persone sui bordi della strada attendeva eccitata il passaggio del Giro d’Italia del ’59. Quell’anno vinse Gaul, ma sulla bocca di tutti i tifosi era Anquetil il nome del corridore più acclamato. Tornarono e casa sconsolati. Erano andati per vedere Coppi, il grande campione ma il campione non partecipò quell’anno, la sua carriera stava finendo; l’anno precedente era arrivato trentaduesimo. L’anno dopo sarebbe morto per una puntura di zanzara. 

Ogni giorno, il ragazzo prima di arrivare all’incrocio dal quale sbucava la coppia, aumentava o rallentava la velocità per raggiungerli o attenderli e pedalare accanto a loro.

Nell’arco di poche settimane erano diventati compagni di viaggio. La bambina quando lo vedeva avvertiva il padre con il suono del campanello esclamando: «Ecco il gregario».

Gianni, il padre, a volte su richiesta dell’amabile passeggera intonava una allegra filastrocca: 

«Serafino aveva un sifolo, sifolava tanto ben

e quando c’era nigolo, il cielo diventava seren.

Serafin sé fèt, so chè, so mia se fa sifule, sifuleremo insiem. 

Tutte le donne facevano silenzio

per ascoltar quel sifolo, per ascoltar quel sifolo.

Tutte le donne facevano silenzio

per ascoltar quel sifolo, sifolava tanto ben».

Il canto era seguito dal fischio che ripeteva lo stesso motivo. La figlia cercava di imitarlo ma riuscendo solo a soffiare aria riprendeva il canto da sola. 

I due avevano in comune il taglio, la profondità e il colore degli occhi azzurro-cielo. La faccia cotta dal sole palesava le origini contadine dell’uomo e contrastava con quella madreperlacea della bellissima scolaretta, ma entrambe mostravano il sorriso di un armonioso legame affettivo, qualcosa di simile al profumo del pane appena sfornato.

Ogni giorno i tre raggiungevano insieme la scuola. Il padre accostava la bicicletta al muro, faceva scendere la piccola, le consegnava la cartella, si chinava per un bacio, vademecum necessario per cominciare bene la giornata, poi montava in sella e si perdeva nell’ingorgo dei veicoli per raggiungere i cancelli della fabbrica in fondo alla via.

I giorni del primo trimestre volarono, ma il rientro dalle vacanze di Natale presentò un cambiamento: non c’era la bambina sul canotto della bicicletta. 

Il volto del ciclista era cupo, a chi gli rivolgeva il saluto faceva solo un cenno col capo. Le risposte laconiche, fornite alle domande di un passante, fecero intuire al ragazzo che la bambina aveva subito un’operazione difficile ai reni, dopo che, finalmente, si era capita la causa delle continue coliche di cui soffriva. 

Stefano non aveva intuito che il pallore del volto della bambina potesse essere sintomo di una sofferenza in corso. Capì subito invece che le lacrime che scivolavano sulle guance dell’uomo e si staccavano come piccoli cristalli di ghiaccio non erano causate da congestione per il freddo. Notò anche che l’operaio invece delle scarpe invernali calzava sandali a piedi nudi. Era un voto quello. Stefano ne era certo, suo padre quando era in vita, ogni venerdì di quaresima andava scalzo per una promessa che aveva fatto anni prima, durante la guerra, se fosse tornato vivo dalla prigionia in Germania. Intuendo il senso di quel sacrificio si lasciò coinvolgere e contribuì con un suo piccolo impegno: non avrebbe infilato i guanti finché non fosse ricomparsa la bambina dagli occhi del colore del cielo. 

Per tutta la quaresima i due ciclisti pedalarono affiancati, in silenzio.

Alla ripresa delle lezioni scolastiche dopo il lunedì dell’Angelo, il ragazzo fu bloccato sul cancello della scuola dal padre della bambina che gli chiese: «Perché non porti i guanti, ho notato che hai i geloni alle mani».

Stefano, che avrebbe preferito evitare di rispondere, guardava altrove per contenere il proprio turbamento. Aveva condiviso la sofferenza dell’uomo con un gesto segreto di solidarietà ma il suo gesto era stato scoperto come il profumo irradiato di una piccola viola nascosta nell’erba. Il ragazzo con timidezza fece sentire per la prima volta la sua voce e rispose: «Per la stessa ragione che lei é scalzo» ma abbassando lo sguardo notò le scarpe e le calze dell’adulto. 

Il modo di donare vale molto più del dono. Chi non sa comprendere uno sguardo, non potrà capire lunghe spiegazioni. Quel ragazzo possedeva il dono di una vista limpida, la bontà della sua anima si rifletteva sul volto, negli occhi, nel sorriso, nel tono della voce. Gianni commosso, non si trattenne, lo abbracciò. Il dolore può bastare a se stesso, ma per apprezzare a fondo una gioia bisogna avere qualcuno con cui condividerla. La gratitudine per il gesto prezioso sarebbe rimasto un segreto tra i due.

«La mia bambina sta bene, è guarita, ora viene a scuola col l’autobus del Comune; son riuscito a convincere l’assessore ad allungare il tragitto e farlo passare davanti a casa nostra. Ora non ci incontreremo più sulla strada al mattino, anche io cambio orario, riprenderò il turno fisso dalle sei alle quattordici. Adesso che arriva la buona stagione avrò tempo nel pomeriggio per dedicare cura all’orto. Bianca sta arrivando. Se aspetti un attimo la vedi. Ecco il pulmino» . 

La piccola scesa per ultima, con sorpresa mormorò:

«Il gregario. Papà…. 

«Bianca, lui è…

«Stefano».

«Gianni».

I due scolari si guardarono fissi negli occhi per la prima volta, arrossirono, poi tutti e tre si salutarono e proseguirono nelle opposte direzioni. 

PIÙ CHE AMICI

  1. GEROLAMO E NATALE

1915. Fa molto freddo nelle lunghe notti nebbiose d’inverno. Il vento sferza i ghiaccioli che pendono dalla grondaia prima di insinuarsi tra le imposte sconnesse della casa di campagna. Gerolamo lo sente. Non ha fratelli, il ragazzo dorme da solo, rannicchiato nel grande letto che era stato il talamo dei nonni. Il materasso non è di lana, le brattee secche delle pannocchie riempiono l’interno del sacco di tela. Le coperte sono pesanti ma non scaldano. Il sonno è scandito dal rintocco del campanile che a volte nella notte dimentica di suonare le ore. 

Seduto sugli ultimi gradini della scala sotto al portico, mangia pane scuro, cotto nel vecchio forno a legna; non valgono le grida della mamma che lo trascina dentro quasi a forza perché quello è un lusso che non tutti possono permettersi di questi tempi. 

Un sasso gli cade vicino ai piedi, un altro lo colpisce al una spalla, alza lo sguardo verso il fondo del cortile; un coetaneo da poco arrivato nel borgo con altre famiglie di braccianti in cerca di lavoro lo ha preso di mira. Gli corre incontro deciso. Lo affronta pronto a colpirlo con un pugno. L’altro non si muove, i suoi occhi fissano la pagnotta, non ha niente da mangiare. La fame è spartita. I due mocciosi diventano amici inseparabili. 

Prima di comparire dietro le maglie arrugginite della recinzione, l’arrivo di Natale è annunciato da un fischio potente. Gerolamo si libera in fretta delle scarpe per non consumarle, e via di corsa a rompicollo sulla stradina di sassi in discesa, i due amici attraversano la barriera di biancospino per raggiungere il bosco. Gli sterpi della siepe graffiano le gambe e le braccia, i due monelli coi calzoni abbassati si disinfettano le ferite irrorandosi a gara con liquidi archi gialli. Poi si stendono sull’erba pancia all’aria per ammirare le rondini che sfrecciano il cielo, per dare un nome alle forme delle nuvole, per condividere sogni ad occhi aperti. Il fischio è il loro richiamo d’intesa. Gerolamo impara dall’amico a fischiare con le mani. Preme, una contro l’altra le punta dell’indice e del pollice formando un anello, lo posa sulle labbra, vi appoggia sopra la lingua rivolta verso il palato, stringe le labbra protese sui denti per creare l’unico spazio per fare uscire il fischio, e dopo un respiro profondo soffia con energia spingendo l’aria fuori dalla bocca. 

Que reste-t-il?

Nostalgie di dicembre

Sono qui, una civetta a stomaco vuoto in un vecchio rudere,

il collo ritirato tra le ali e gli occhi dolci come lampade a petrolio,

la grandine e il temporale hanno limitato la mia caccia nella notte,

scruto oltre la finestra in attesa.

Il sole si è ritirato, la notte si sta allungando,

la luna nel perigeo si affaccia nel cielo.

Verso est vedo sorgere le costellazioni che domineranno il cielo nell’imminente inverno:

prima il Toro e successivamente i Gemelli.

La mano come sestante calcola la distanza tra i due astri,

Castore e Polluce, così vicini così lontani,

una spanna nello specchio della finestra,

migliaia di anni luce nell’infinito color inchiostro.

Vorrei raggiungere i due fratelli per stringerli a me.

Puntare lo sguardo come un raggio per trafiggere la nube della memoria non mi aiuta;

per fare questo viaggio nel silenzio eterno dei pianeti ho bisogno di una canzone.

Un motivo di allora mi apre la porta in un luogo dove lo so che non tornerò.

La cameretta dei ragazzi dipinta di giallo e rosso,

i lettini col copriletto azzurro,

i poster alle pareti realizzati con un collage di carte da regalo,

i pupazzi di peluche,

Gigi l’inseparabile orsetto di Ale da trent’anni accanto al suo cuscino,

il letto vuoto di Matteo che se n’è andato un giorno di maggio,

le costruzioni con i mattoncini Lego sulla mensola,

il tappeto sul quale ci rotolavamo, cavallo io e loro cavalieri.

Rivedo i visi, gli sguardi innocenti,

sento risate, mormoro i nomi,

respiro il profumo dei capelli di seta,

mi inchino a rubare un bacio nel sonno dei loro sogni incantati.

Cosa resterà?

Fiori nascosti in un libro, foto ingiallite e qualche biglietto sepolto in un cassetto.

Que reste-t-il?

 

Can’t take my eyes off you

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Dopo cinquant’anni mi ritrovo qui a Ho Chi Minh per un viaggio, un ritorno nei luoghi dove ho combattuto, ho ucciso, e ho visto morire i miei compagni. Per me il nome di questa città rimarrà sempre Saigon. Niente è come allora, non è una sorpresa, dopo la distruzione, la ricostruzione.

È un’emozione. Difficile descrivere il respiro pesante di questa città convulsa e trafficata, striato da suoni di sirene lontane e da rumori forti. Un senso di vertigine mi scarica addosso la sensazione di rivivere lo stesso mondo di drammi, di miserie, di paure, di sofferenze che credevo aver dimenticato e invece si ripresentano come se fosse passato un solo giorno da allora.

Non posso dimenticare quello che è successo qui. Parlare di guerra e di morte è una cosa, altro è viverla. Stai insieme ad una persona e pochi secondi dopo ti ritrovi la sua testa addosso, vedi fiotti di sangue schizzare fuori dal suo corpo, da un braccio da una gamba. Non so quante persone ho ammazzato, non lo so. Ma quando sei lì hai un solo pensiero: Come posso uscirne vivo?. Il resto non conta.

Dal finestrino del taxi osservo i viali della città sfilare davanti ai miei occhi, non ne son rimasti moltissimi di quei viali alberati che compaiono anche nei film, ma quelli che vedo sono uno degli incanti di questo posto.

L’autoradio diffonde una canzone, la riconosco dopo le prime note, Gloria Gaynor canta Can’t take my eyes off you, remake di un successo lanciato nel 1967 da Frankie Valli e la sua band Four Season. Il ritornello dice Non riesco a toglierti gli occhi di dosso, sei troppo bella per essere vera. Ogni volta che ascolto questo pezzo mi prende un nodo alla gola: la ascoltavamo nella tenda dello spaccio dell’accampamento in quel tempo di permanenza nel Vietnam.

La luce del sole d’oriente abbaglia i miei occhi, li richiudo e per due o tre secondi intravedo un bagliore incandescente e insostenibile, più candido della neve.

Li riapro, sul marciapiedi, davanti alla vetrina di un negozio appare una bambina dai capelli neri, aggrappata ai calzoni bianchi di sua madre. È un’immagine radiosa, pura, la più efficace rappresentazione visiva che potessi avere del suo essere. Sul disegno stampato della sua maglietta bianca riesco a vedere quello che potrebbe essere un piccolo arcobaleno senza colori. Ha gli occhi a mandorla, qualcuno direbbe a goccia, a me appaiono come due pesciolini che vorrebbero incontrarsi su quel viso più limpido del vetro della boccia nella quale stanno nuotando. Sta guardando timidamente nella mia direzione, ho la netta sensazione che mi stia fissando, occhi negli occhi.

Lo sguardo è un vero e proprio itinerario verso la profondità nascosta dell’altro.

La nostra è la civiltà dell’immagine immediata, del vedere superficiale, del flusso televisivo. Il nostro occhio è affollato e spesso sporcato, e, così, non sa più andare oltre la superficie delle cose, la pelle delle persone, la mera percezione della realtà. Lo sguardo è non solo un vedere gli occhi dell’altro, ma intuirne il linguaggio segreto. Se fossimo più capaci di affrontare il dialogo degli sguardi, saremmo meno timorosi delle persone diverse da noi per colore della pelle, per cultura e per usi e costumi. Guardandoci di più negli occhi, eviteremmo incomprensioni, contrasti e forse anche odio e cattiveria. Guardando negli occhi si scopre l’umanità che tutti ci accomuna. L’odio e la paura dell’altro nascono proprio da questa incapacità di guardarci in faccia: scopriremmo di essere del tutto simili, segnati dalla stessa impronta umana, fratelli nel dolore e nella gioia.

Scavalco il muro del suo timore per esplorare il suo sguardo.

Una fotografia stampata nella piccola cornice del mio cuore riaffiora come una sorgente dalla roccia dei ricordi.

Ho visto morire la sua gente, ne ho perso il conto, ma solo lei è tornata, sopravvivendo in terre d’ombra e rampe di sangue per ridare pace alla mia vita in risposte che non ho saputo trovare.

La memoria insegue a intermittenza un fantasma folle: ero uno dei tanti marines mandati qui per combattere il nemico, addestrati per uccidere il nemico. La tecnologia dell’odio che ci aveva arruolati non poteva essere invertita, né invertito il suo tragico corso, dall’alba al tramonto. Il nostro obiettivo: setacciare paesi e villaggi in cerca dei Vietcong che si erano mischiati ai civili per sabotare, sconfiggere il sogno americano. La terra bruciata esplodeva sotto il peso delle bombe sganciate dalla nostra aviazione. Le granate scoppiavano a pochi passi da noi, uccidendo e martoriando. Nessuno veniva risparmiato.

Le madri piangevano nelle risaie deserte mentre seppellivano quei piccoli corpi con gli occhi chiusi. Quei piccoli angeli fasciati di stracci che si sarebbero dissolti in breve tempo non hanno conosciuto i giorni di un’infanzia serena, ben nutrita, la meraviglia di un bacio, la follia di una corsa in moto, la gioia per un ritorno, la tristezza di un addio, la speranza per un nuova alba, la passione di un amore.

In un villaggio bruciato, sentii qualcuno che stava gridando nella torbida luce verde, attraverso i vetri appannati della maschera antigas un uomo dimenandosi tra le fiamme mi veniva incontro barcollando, giunto davanti a me si inginocchiò con le dita delle mani incrociate nel gesto di una supplice preghiera e prima di crollare a terra puntò l’indice verso un punto davanti a sé. Seguii d’istinto la direzione del dito. Mentre Incespicavo nel mare di corpi, macerie e distruzione, una voce dentro me urlava: Perché Dio permette tutto questo. Dov’è Dio?. Dove sei Dio?.

Vidi la bambina, accanto ai resti fumanti di una misera capanna, aggrappata a quella che non sarebbe stata più sua madre. La voce dentro me si placò.

Dio era lì.

Mi inginocchiai davanti a lei. Non riuscivo a strapparla dallo scudo di quel corpo martoriato. Non sapevo come fare. Tolsi l’elmetto e la maschera per apparire meno mostro di quello che ero e attesi finché la stanchezza mi indusse a sedermi sui polpacci. Prima che la mia vista diventasse debole la vidi crollare a terra. La presi tra le braccia per portarla lontano da quel luogo di disperazione, lei era sveglia ma talmente stanca e sfinita che non ebbe la forza di reagire, abbandonò il suo capo sulla mia spalla. La mia mano accarezzava i lunghi capelli neri incrostati di fango e di sangue. Raggiunsi una radura affiancata da un canneto. Il vento soffiava tra i bambù, mi fermai, la deposi a terra sul giaciglio di una coperta che tenevo arrotolata tra le cinghie dello zaino, riuscii a farle bere un sorso d’acqua dalla mia borraccia. La notte scese sopra noi come una coltre trapunta di stelle. Lei puntò il dito verso altre stelline che si muovevano in moto ondulatorio e intermittente sull’erba. Lucciole. Ne catturai una e la deposi nel palmo aperto della sua mano affinché brillasse sul solco della vita, fu come tentare di far confluire in un piccolo stampo la colata incandescente che bruciava nel mio petto. Lei chiuse gli occhi stringendo il piccolo tesoro nel pugno. La stanchezza prese il sopravvento, si addormentò, mi addormentai. La vidi nel sogno in una nuvola di luce, fluttuava a cavallo del vento, circondata da cascate e ruscelli che sussurravano il suo nome.

Al mattino lei se n’era andata lasciando il suo piccolo corpo accanto a me. Addormentata per la guerra, per l’odio e la paura.

L’avevo persa prima ancora che potessi darle un nome.

Ora è qui.

La guardo negli occhi, con gli occhi di un cuore che non ha ritrovato riposo, che non si è ancora aggiustato.

Come posso dirle che non sono riuscito a proteggerla.

Ci sono tante cose che vorrei dirle ma sto sperando solo di prenderla in braccio, stringerla mentre le scompiglio la chioma nera appoggiata sulla mia spalla. Vorrei prenderla per mano e condurla lungo i sentieri della vita, vorrei dirle sarò sempre al tuo fianco, ti assisterò, ti darò aiuto nel momento delle difficoltà, quando vacillerai ti appoggerai a me stanca e proseguirai con il mio aiuto, ti rialzerò quando cadrai.

Sento le parole del suo silenzio eloquente:

Sono una bambina.

Tu non riesci a concepire l’assenza del mio sorriso.

Tu sei un uomo.

Mi sollevi e poi mi rimetti giù.

Tu fai le regole.

Dici cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Ho visto la linea tracciata tra il bene e il male.

Ho visto l’uomo cieco sparare proiettili di piombo.

Sterminare le persone che amavo.

Chi era il nemico?…

Eri tu il nemico.

Mi piacerebbe sapere cosa hai imparato dalla guerra.

Io solo questo:

Il cielo è blu

Il prato è verde

Qual’è il colore quando tutto è bruciato?

I giardini di marzo

La canzone sospesa di mia moglie risale al 1972, è una delle più emozionanti del panorama musicale italiano, composta da Mogol e cantata da Lucio Battisti. La melodia struggente e malinconica del brano si sposa perfettamente col testo, immerso nella nostalgia del passato.

Che anno è, che giorno è

Era il 1958, martedì 11 marzo, quando Maria con sua madre Ernesta percorse a piedi la strada dal Villaggio Marzoli all’Ospedale di Palazzolo. Le acque si erano rotte, le doglie furono veloci e nacque il terzo figlio, una femmina. Il cielo bianco quel giorno si aprì per deporre un mantello bianco sul mondo di Marina; all’anagrafe al nome scelto dalla madre il padre Vincenzo aggiunse Bianca, come la neve.

I giardini di marzo si vestono di nuovi colori                                                                                       e le giovani donne in quel mese vivono nuovi amori

Era il 1977, 11 marzo. Marina festeggiava al bar il suo diciannovesimo compleanno. Vito un amico figlio del datore di lavoro di Marina mi portò a quella festa e così ci incontrammo per la prima volta. Mi colpirono i suoi occhi.

Cieli immensi

Il giorno seguente eravamo seduti su un muretto del lungolago d’Iseo presso Predore; un amico ci fece mettere in posa per scattare una foto. Quando lei appoggiò la sua mano sulla mia spalla; partì la freccia di Cupido.

e immenso amore e poi ancora amore amor per te

un’ora dopo sulla strada di casa le dissi che l’avrei sposata. Ci sposammo nell’ottobre dell’anno seguente.

Che anno è, che giorno è

Era il 1980, marzo, non ricordo il giorno; lavoravo alla fonderia artistica del mio paese, lei a mezzogiorno mi aspettò sulla porta col sorriso sulle labbra : – Aspetto un bambino -. Il 31 ottobre nacque il nostro primo figlio: Alessandro.

Che anno è, che giorno è

Era il 1984, marzo, non ricordo i giorno; lavoravo alla forneria della mia famiglia con mio fratello Paolo; lei a mezzogiorno mi aspettò sulla porta col sorriso sulle labbra:           -­ Aspetto un bambino – . Il 2 novembre nacque il nostro secondo figlio Matteo.

Che anno è, che giorno è

Era il 2003, il 12 marzo, Marina era nella cella di isolamento del reparto Ematolgia dell’Ospedale di Bergamo: Leucemia promielocitica acuta. Il primario mi disse: – Sua moglie è arrivata qui in estremis; c’è un nuovo protocollo di cure, se supera queste due settimane ci sono buone probabilità di salvarla. Non facciamoci troppe illusioni ma abbiamo fede – . Lei ne ha avuta tanta; nel suo sguardo sofferente leggevo queste parole:

Se mi aiuti son certa che io ne verrò fuori

Son passati sedici anni da quei tristi giorni, il ricordo di quei momenti è sempre presente anche se si evita di parlarne perché la vita deve andare avanti, ogni giorno insieme. Insieme.

Questo è il tempo di vivere con te

CINTURA VERA

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Lei si chiama Veronica Raineri, abita nel mio stesso paese, ha 25 anni, figlia di un mio caro amico, la conoscono tutti come la classica brava ragazza di famiglia, non solo ora, ma anche da prima che una malattia rara stravolgesse la sua vita e quella dei suoi cari.

Appassionata dello sport del Karate , è sempre stata una combattente e questa forza l’ha messa sul tatami della vita di ogni giorno per combattere il suo avversario e  le ha dato anche l’idea  di mettere su carta  i momenti di questo match che tuttora si sta svolgendo ma che lei affronta sempre con coraggio e  determinazione.

Il libro si legge in un soffio, niente paroloni da dover ricorrere al vocabolario, Google o Wikipedia per capire di cosa si stia parlando; contiene momenti drammatici, sereni e  perché no di ilarità. Ho sorriso, riso. mi sono commosso.

Riporto le parole scritte tra virgolette sulla quarta di copertina:

La potenza della speranza, l’amicizia vera, l’amore profondo, la gioia immensa e la forza inaspettata di una persona qualunque che si trova di fronte ad una sfida indesiderata. Questo è il mio personale incontro con la malattia”.

e due frasi che mi hanno colpito:

  • La verità però è che, per quanto tu possa esser forte e coraggioso, ci sono volte in cui anche fare un semplice sorriso diventa la cosa più difficile di questo mondo (sono molti i muscoli che servono per sorridere, ma, a pensarci bene, sono ancora di più quelli che servono per arrabbiarsi).
  • la seconda frase è il tatuaggio che sua sorella Federica si è fatta fare su un braccio: My sister is my hero, e qui è scappata la lacrima.

 

Una scottante carezza

L’intricato tessuto legnoso aveva mantenuto acceso il grosso ceppo della notte di Natale e nella taverna dei fratelli Enrico e Dario, alle otto di sera, il tepore delle fiamme crepitanti aveva creato l’atmosfera giusta per la festa. Erano quasi arrivati tutti i ragazzi e le ragazze della compagnia, mancavano solo Paolo e Sara.

Il giovane carabiniere in licenza da cinque giorni, era passato alla casa della quindicenne entrata a far parte della compagnia da pochi mesi, per darle un passaggio.

I genitori della ragazza gli avevano raccomandato di riportarla a casa entro la mezzanotte.

Il poncho coloratissimo fuori moda donava un aspetto romantico a Sara, un tipino acqua e sapone che appena salita in macchina senza neanche presentarsi sbottò:

« Uff mi trattano ancora come se fossi una bambina. Dopo la curva ferma la macchina e accosta ».

Sul ciglio della strada, Paolo con le mani sul volante della sua Citroen 4 CV rimase a guardare ammutolito la metamorfosi.

Abbassato lo specchietto, Sara si passò il rossetto sulle labbra, truccò gli occhi, e, sollevando il poncho si sistemò la minigonna vertiginosa mettendo in mostra le belle gambe.

Da bambina a bomba sexy in poco più di cinque minuti. Il cambiamento scombussolò Paolo, aveva avuto l’impressione di vedere una farfalla impaziente che per la fretta di uscire dal bozzolo si lacera le ali.

Un paio di chilometri in silenzio prima di arrivare alla destinazione.

Li accolse il colore e la luce del focolare. C’erano tutti: i due fratelli con le inseparabili chitarre, Alessio, Angelo, Carlo, Dana, Laura, Luisa, e qualche faccia sconosciuta a completare il resto della compagnia.

Sul tavolo addossato alla parete c’era ogni ben di dio: panini imbottiti di prosciutto cotto e salame, panettone, pandoro, frutta secca, datteri, mandarini, bibite, spumante, cioccolatini e una scatola di marron glacé.

Nel semicerchio che si era formato davanti al camino i due fratelli stavano suonando il primo giro di accordi su una canzone di Bennato. Enrico alzando lo sguardo verso Paolo gli fece un cenno col capo che voleva dire – attacca la prima strofa che poi ti vengono dietro tutti gli altri -.

« Un giorno credi di essere giusto e di essere un grande uomo in un altro ti svegli e devi cominciare da zero…».

Canzoni, chiacchiere, confidenze, risate. Tutti erano coinvolti, una normalità per un gruppo che si conosce da lunga data.

Sara invece non sembrava interessata alla festa, se ne stava in disparte con Luisa, l’amica di qualche anno più grande, ogni tanto si alzava per andare alla finestra, accostava le tende e rimaneva ferma a guardare nel buio.

Un colpo di clacson prolungato. Sara scattò in piedi dal divano, raccolse il poncho, raggiunse la porta e rivolgendosi all’amica a voce alta quanto basta per farsi sentire anche da qualcun altro disse:

« Ciao. Io vado mi porta a casa lui ».

Non era ancora arrivata al cancello che Paolo era già alle sue spalle.

In strada c’era la nuova e fiammante GT Spider di Stefano che spalancata la portiera disse alla ragazza:

« Dai monta!».

Paolo lo conosceva bene, avevano giocato al pallone nella stessa squadra. Ma non erano mai stati amici. Troppo sbruffone. Era uno sul quale non c’era da fare affidamento. Come fidarsi di uno che per le ragazze aveva il motto – usa e getta – .

Scostando la ragazza afferrò la portiera e sbattendola violentemente la rinchiuse dicendo:

« Tu non vai da nessuna parte. Ho promesso ai tuoi che ti avrei riaccompagnato a casa, perciò entra subito » e rivolgendosi al guidatore: « Non ti vergogni di rimorchiare una quindicenne? ».

Sara gli puntò in faccia tutta la sua rabbia, i suoi occhi scagliavano scintille di fuoco. Gli mise le mani sul petto per scansarlo urlandogli in faccia:

« Cosa vuoi, torna dentro con i tuoi amici dell’oratorio e lasciami perdere. Non sei il mio tutore. Io vado dove e con chi voglio. Non sarai certo tu a fermarmi. Carabiniere! ».

La reazione di Paolo fu immediata. Con la mano sinistra le abbassò e mani e con la destra le mollò una sberla che la fece barcollare.

« Entra subito in casa e non fiatare.

E tu sgomma subito o ti spacco il muso ».

Luisa alle loro spalle aveva assistito alla scena, e approfittando del momento saltò in macchina. Sara non se ne accorse.

Stefano ingranò la marcia e facendo stridere le ruote sull’asfalto partì di corsa. Il suo vaff… si perse nell’aria gelida della notte.

A Paolo scottava la mano, si rendeva conto di aver alzato le mani su una donna ma ricordò una frase: chi agisce per un buon fine non fallisce mai. Tentò di giustificare il suo gesto: « Sara…».

Lei non lo lasciò continuare:

« Sei invidioso perché lui ha una bella macchina e non un cartoccio come il tuo. Portami a casa ».

« Al volo » rispose lui, sapeva che in quel momento sarebbe stato inutile qualsiasi chiarimento.

Nessuna parola per tutto il tragitto. La lasciò sul cancello di casa. Lei non rispose al suo saluto.

Agli amici , Paolo disse che la ragazza non stava bene e che l’aveva accompagnata a casa. La festa finì a mezzanotte, lui non cantò più quella sera. La mano bruciava.

Il giorno seguente la telefonata di Enrico:

« Paolo hai sentito cosa è successo?La Spider di Stefano si è schiantata contro un albero. Lui è morto ».

« E la ragazza che c’era con lui? ».

« Quale ragazza? Non c’era nessuna ragazza ».

« Luisa ».

« Ma non le hai portate a casa tu, lei e Sara? ».

Paolo fece finta di niente e si scusò:

« Hai ragione. Le ho portate a casa tutte e due io. ».

Al funerale Sara seguiva il feretro in fondo al corteo, le lacrime avevano intriso il fazzoletto che teneva tra le mani. Luisa le si accostò, la prese sottobraccio e le disse:

« Felicità e vetro quanto facilmente possono essere spezzati. Alla nostra età non si pensa alla morte, la immaginiamo lontana, non ha nulla a che vedere con le nostre giornate, invece si presenta in un giorno qualsiasi per strapparci da un’esistenza che ha tanti progetti da compiere ».

« Sarebbe potuto diventare una bella storia e invece…».

« E invece ti è andata bene ».

«Cosa stai dicendo sei impazzita!».

« No, l’altra sera quando ho preso il tuo posto sulla sua macchina, Stefano dopo un chilometro ha deviato in una stradina di campagna. Si è fermato, ha spento il motore, ha cominciato a baciarmi, capivo che non si sarebbe limitato a quello, era eccitato, mentre abbassava i ribaltabili capiì che sarebbe finita male. Con la scusa di togliermi il cappotto sono scesa dalla macchina e sono scappata nel campo. Lui mi chiamò dicendo di non fare la bambina, ha insistito, poi ha cominciato a urlare che se non l’avessi raggiunto immediatamente mi avrebbe lasciato là a gelare dal freddo, ma avevo paura e mi inoltravo sempre più nel campo perché temevo che venisse a prendermi. Invece, e per fortuna, non ha perso tempo, mi ha chiamata ancora una volta ed è ripartito a tutta velocità bestemmiando. Sono tornata a casa a piedi. Non ho detto niente a nessuno. Capisci, mi avrebbe violentata. Poteva succedere a te.

A volte senza riflettere ci si butta a capofitto in situazioni pericolose, con superficialità. L’avventatezza rivela la nostra immaturità, l’irresponsabilità e l’incoscienza.

Sara rimase in silenzio ad ascoltare e riflettere.

Dopo il congedo Paolo aveva trovato lavoro come rappresentante in una ditta di Import Export, spesso era in trasferta, aveva così perso il contatto con gli amici. Passano gli anni, le strade si dividono, ognuno percorre la propria. Cinque anni dopo, la vigilia di Natale, Paolo si fermò davanti alla vetrina di una pelletteria: aveva bisogno di un paio di guanti. Entrò.

La commessa stava servendo una signora che voleva una borsa, ogni tanto lanciava uno sguardo su di lui. Quando l’anziana cliente fu servita la ragazza rivolgendosi a lui lo sorprese:

« Ciao Paolo ».

Lui sorpreso rispose: « Ci conosciamo?»

Lei fece cenno di sì.

Mentre la guardava cercando di ricordare Paolo chiese:

« Vorrei un paio di guanti. Quali mi consiglia ».

« Dammi del tu, sono passati cinque anni ma non sono così vecchia ».

Le parole della commessa uscirono dalle labbra con discrezione e pudore, centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio ovattato come l’interno dei guanti di pelle che gli stava facendo provare.

« È passato molto tempo, e ogni giorno è stato un giorno in cui mi sono sentita sempre più intraprendente, sicura, forte, tenace, ma non ho mai scordato quella sera, quel momento durato solo un attimo. Come quando dalla finestra entra il vento violento e sconquassa tutto ma passando sulle cose lascia il suo profumo tu mi hai fatto capire che l’esperienza rivela il sapore acido di un frutto non maturo che presenta all’esterno una buccia dorata e invitante ».

Paolo stupito ascoltava ammirando la bellezza di un candore ritrovato, la guardava con gli stessi occhi di un bambino che sta col naso incollato al vetro della finestra per vedere il cielo sbriciolarsi in fiocchi di neve.

La ragazza allungò una mano verso di lui:

« Fammi vedere le mani ».

« Eccole. Perché dovrei riconoscerti, chi sei? Non riesco a trovarti nei miei ricordi ».

Lei prese la sua mano destra, la rivoltò, passò le dita affusolate sulle linee del palmo, e sollevandola la appoggiò sulla propria guancia. Una scottante carezza.

« Ti ricorda qualcosa?».

« Sara! ».

« Sì. Sono io ».

« Non mi sono più scusato per quel gesto di Natale ».

« È stato il più bel regalo che potessi ricevere ».

Il trombettiere stonato

Al di qua del muro

Irreale, come il grido di un fantasma, attraversa il cielo, irrompe nella mia stanza. Il suono rauco inarticolato emesso con forza sfonda i muri come fossero di carta velina e si infrange sulla nuda corteccia del mio cervello. Al di là del confine, l’urlo replicato ad intervalli frequenti ha un solo intento: distruggere la mia pace. Nel silenzio che precede il grido stridente riesco a sentire la sua presenza nella notte e non riesco più a dormire.

Lavoro duro tutto il giorno e dopo dieci lunghe ore ho il diritto di riposare. Sono venuto a vivere qui nella pianura dove la quiete non è disturbata dalla pioggia che batte forte sul soffitto, dalle mosche che ronzano in cucina o dall’umidità appesa nell’aria come una tenda.

Lui ha rotto i miei silenzi. Comincia alle due di notte e continua fino alle sette di mattino a intervalli di un quarto d’ora.

Sto perdendo il controllo, lo stress ha il sopravvento su me, mi risucchia nel suo vortice. Ho una morsa sullo stomaco e non riesco più a mangiare. Sono diventato leggero come la paglia e fragile come un passero, peso meno di un’ombra sul muro. Mi meraviglio di essere ancora vivo.

Il mio lamento è il sussurro di una voce inascoltata, nessuno presta attenzione alle mie lamentele

Non riesco a vedere una via d’uscita. Non so più cosa fare.

La follia privandomi del giudizio su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, sta minacciando la purezza del mio pensiero. Sento inclinazioni diaboliche.

Bloccato in un silenzioso monologo, cerco a tentoni una risposta guardando la mia immagine riflessa nello specchio.

Gli occhi sono la testimonianza delle notti insonni.

Sono proprio io?

O sono qualcun altro?

Non so più chi sono. Chi vive dentro di me!

L’odio si nutre di me come un vampiro, infetta le ferite che ho cesellate nella noce del mio cervello. Non riesco a liberarmi di lui.

L’assassino che vive dentro di me, non dorme più nell’armatura del mio corpo, lo sento muoversi,

La sua presenza graffia e agita la tempesta nella mia mente.

I suoi occhi osservano lo specchio attraverso i miei, mi guarda mentre sto per cedere.

Fuori controllo. Sono fuori controllo. Come posso ricevere aiuto ?

La mia faccia è svuotata di colore e il mio cervello di sangue, le mie facoltà complete sono compromesse. Il libero arbitrio giustifica il mio bisogno di indecisione. Lancio in aria una moneta, testa vita, croce morte. croce.

Istinto e brama di uccidere. Chino il capo in segno di sottomissione.

Non ci sono altre vie per oliare l’ingranaggio dell’odio che ho accumulato: il sacrificio offre speranze. Non c’è tempo per il ripensamento. È troppo tardi per fermarsi. Se il cielo è seminato di morte, che senso ha fermarsi a prendere fiato?

Nessuna tregua finché il nemico sarà morto. Il re deve morire. Non avrò pace finché la causa sarà combattuta e vinta.

Il giustiziere della notte ha volontà di uccidere per sopravvivere.

La vendetta sta per cominciare.

Tutto tranquillo sul fronte occidentale.

Mi arrampico sul muro, lo scavalco. Strisciando navigo sull’erba, attraverso lo spazio che contiene la notte e raggiungo il suo alloggio.

Non è solo. Dormono tutti. Ognuno nel proprio giaciglio. Non riesco a distinguerlo.

Non posso sbagliare. Li ucciderò tutti. Spargerò sangue, un’inarrestabile inondazione rossa.

Le mie dita stringono l’impugnatura della scure affilata. Accarezzo la lama dopo aver deciso quelli che devono morire per primi. Nel buio distinguo un ceppo di legno: sarà il patibolo, il boia sono io.

Le stelle non brillano né per me né per il nemico.

Colpisco con rabbia, con una forza che non ho saputo dominare.

Adesso è tutto finito e questo è il risultato.

Nella strage tutti i cadaveri hanno lo stesso odore.

Barcollando insensatamente, fuggo dal luogo della strage. Prima di precipitare oltre il muro mi volto, guardo indietro, quello che ho fatto sembra che mi abbia fatto ritrovare la calma, sono vicino alla luce, comincio a vedere bene, riconosco il mostro che mi ha posseduto e me ne libero. Ritroverò la pace e la serenità che avevo nei giorni e nelle notti prima che arrivasse il trombettiere stonato.

Al di là del muro

Lauri seduta sul bordo del letto comincia la giornata con le orazioni mattutine che durano il tempo di infilarsi le calze. La sciatica e gli acciacchi alle ossa rallentano i movimenti quanto basta per recitare pater ave gloria per i vivi, requiem per i morti e un angelo di Dio per le anime più disperate. Si sveglia sempre al canto del gallo anche se ora non lo sente più a causa dell’età o come dice lei, per il rumore dell’autostrada che diventa insopportabile quando il vento del nord soffia sulla cascina.

La cucina è illuminata dalle fiamme del focolare; suo fratello Nocente come ogni mattina ha buttato sul fuoco una fascina per riscaldare l’ambiente. L’ottantenne sta facendo colazione con la scodella di latte tra le mani.

« Non ho sentito il canto del gallo stamattina ».

« Stiamo diventando sordi mio caro ».

La contadina afferra il lembo inferiore del grembiule, versa nel marsupio improvvisato una manciata di granoturco e raggiunge il fondo del portico. Il sole fa balenare riflessi argentati nella sua chioma.

« Pio, piopiopiopio, piiiio.».

Di solito al primo richiamo le galline si precipitano zampettando sull’aia.

La donna continuando il suo richiamo si avvia verso il serraglio. La porta è spalancata. Lauri si mette le mani nella permanente tinta color antracite e lancia urlo.

« Vigliacchi vigliacchi ».

Il fratello allarmato, balza in piedi, la raggiunge.

Accucciati in terra contano accantonando una dopo l’altro quindici corpi con le teste mozzate.

« Tutte e quindici le hanno decapitate le nostre galline ».

« Ladri, bastardi ».

« Manca il gallo ».

Guardano attorno. In alto tra i rami del gelso spunta il pennuto impaurito.

« Eccolo lì, l’incapace, non ha saputo difendere le sue femmine, vieni qua, ecco una manciata di grano ».

Il gallo discende la scaletta zampettando. Si ferma e prima di beccare tende il collo.

– CRIGHUCCUBRAGA TRRBDGARRINADUUUUU!–

« Ussignur, che rospi hai in gola. Sembra che tu stia raschiando il fondo di una pignatta. È quasi una fortuna avere i timpani fuori uso. Il tuo schiamazzo farebbe risuscitare anche i morti. Dovevi cantare prima. Qui non servi più .».

Nocente afferra il volatile per il collo e glielo tira con tutta la forza finché il gallo smette di battere le ali. Si rivolge alla sorella: « Carne magra, saporita e compatta. Io lo spenno e lo sventro. Domani gallo alla cacciatora. Mi raccomando cucinalo nella pentola di coccio, con cipolle , carote, pomodoro e olive.

« Invitiamo a pranzo il nuovo vicino e gli chiederò se ha sentito qualcosa di strano questa notte ».